LETTERA A DE ANDRE’
di Don Andrea Gallo
Caro Faber, canto con te e con tante ragazze e ragazzi della mia comunità.
LETTERA A DE ANDRE’
di Don Andrea Gallo
Caro Faber, canto con te e con tante ragazze e ragazzi della mia comunità.
di Alessia Candito
Solidarietà e vicinanza. Parole di incoraggiamento da tutta Italia. La notizia dell’inquietante episodio di cui il figlio di Nicola Gratteri è stato protagonista ha risvegliato dal torpore l’intero arco politico, da destra a sinistra.
Rocco Artifoni il 25 gennaio 2016.
La riforma costituzionale fortemente voluta dal Governo Renzi (ddl Boschi) è in fase di approvazione. Salvo sorprese, otterrà il via libera anche in seconda lettura dai due rami del Parlamento. In autunno si terrà un referendum per confermare o cancellare la riforma, che fino ad allora non entrerà in vigore.
Prima ancora di entrare nel merito delle modifiche costituzionali proposte, è fondamentale ragionare sulle questioni di metodo. Che già di per sé portano a giudizi negativi su questa riforma.
Due o tre cose sulla vicenda Gratteri – a mente fredda – mi sento di scriverle.
Quasi inutile ricordare il caso: alcuni giorni fa, un figlio del pm calabrese è stato raggiunto a Messina da una coppia di falsi poliziotti. Insospettito, il giovane si è barricato in casa e da lì è scoppiato – doverosamente – un putiferio che per fortuna ha garantito tutela al figlio e maggiore protezione al padre, che già vive blindato.
La fondatrice delle «Donne di San Luca» accusata d’aver utilizzato 160 mila euro di fondi pubblici per comprare vestiti e beni di lusso: «Me ne fotto, non sono soldi miei»
di Carlo Macrì
EGGIO CALABRIA – Era considerata un’icona dell’Antimafia Rosy Canale, l’imprenditrice reggina condannata venerdì dal tribunale di Locri a quattro anni di carcere, più l’obbligo di risarcire gli Enti che ha truffato attraverso la sua Fondazione «Donne di San Luca».
«È inaccettabile che la magistratura debba sostituirsi alla politica, che nella lotta alla mafia sta ignorando pesanti vuoti legislativi».
«Il mio Dio, il nostro Dio, non è il loro Dio. Perché il mio Dio è misericordioso, il mio Dio sa perdonare, il mio Dio perdona. Il mio Dio è un Dio di speranza, non di morte e violenza».
No, non si parla di fondamentalisti, di Daesh, di Medioriente ma di Calabria e ’ndrangheta. Le parole sono di Michele Albanese, giornalista del “Quotidiano del Sud” da un anno e mezzo sotto scorta per concrete e pericolosissime minacce della mafia calabrese. Le abbiamo ascoltate nella seconda puntata del bel programma di Rai1 “Cose nostre”. Quattro storie, il sabato sera (tardi, purtroppo) di giornalisti sotto tiro. Parole che non stupiscono.
Conosciamo da molti anni Michele, spesso lavoriamo insieme, come due settimane fa in occasione della nuova impennata di tensione a Rosarno. Parole chiare, per qualcuno forse un po’ inusuali in bocca a un giornalista. Il “Dio del perdono” proclamato da chi, dopo aver raccontato tante volte la violenza, ora la vive sulla sua pelle e su quella della sua famiglia. Ma Michele, cresciuto all’ombra del campanile, parla del Dio che ha conosciuto nella sua formazione familiare, nelle associazioni ecclesiali, nel rapporto con alcuni parroci. Non lo dissimula di raccontarlo davanti alla telecamera. Anzi lo rivendica confrontandolo col “dio della ’ndrangheta”, con la pseudoreligiosità dei mafiosi, coi loro riti di iniziazione dove si brucia un santino dell’Arcangelo Michele (già, proprio il suo nome…), con la “gestione” delle processioni.
Come quella di Oppido Mamertina, con quell’inchino davanti alla casa del boss che Michele aveva raccontato per primo «Non è possibile far inchinare le statue dei santi davanti alle case dei boss». Non ci sta Michele, così come non ci stanno tanti veri calabresi che dicono “no” alla pseudocultura ’ndranghetista, alla violenza che usa anche simboli e immagini religiose, e con questi cerca consenso e giustificazione, come quando uno ’ndranghetista spiega che «l’arcangelo Michele è l’unico con la spada».
Per questo dalla bocca di Michele esce uno spontaneo «Bravo!», quando sotto il palco nella piana di Sibari, ascolta papa Francesco scomunicare gli uomini della ’ndrangheta. «Un momento di liberazione. Finalmente si separava l’olio dall’acqua». Parla e scrive chiaro Michele, giornalista «dalla schiena dritta, senza mai piegarsi, perché la gente deve capire che ci sono alternative a soggiacere alla ’ndrangheta, che esiste una vita fatta di libertà, di futuro, di lavoro», come dice il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Per questo Michele è finito nel mirino dei clan. Per questo ora passa più tempo coi ragazzi della scorta («Sono miei amici») che coi vecchi amici. Ma forte di una profonda e convinta formazione non perde la speranza. «Spesso mi chiedo se rifarei quello che ho fatto. Ma non posso che dire di “sì”, perchè noi abbiamo diritto alla vita come tutte le comunità del mondo».
È questa la Calabria che ci piace, che raccontiamo assieme a quella negativa, sempre troppa. Una Calabria spesso fatta di bella e profetica Chiesa: vescovi, sacerdoti, laici. L’ha ricordato il Papa sempre a Sibari, ma chiedendo di fare di più. «La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze deve sempre più spendersi perché il bene possa prevalere». Spesso le voci positive sono lasciate sole. Lo dice con chiarezza don Pino Demasi, parroco di Polistena amico di Michele e ben noto ai lettori di “Avvenire”. «Se lasciamo solo Michele, se lasciamo sole le persone che lottano e aprono strade, è chiaro che le mettiamo in pericolo. Se invece recuperiamo un “noi” collettivo, se facciamo un lavoro di rete, credo che sono le mafie ad avere paura». Non basta la solidarietà “dopo”. Serve fare squadra “prima”. Michele ha scelto coerentemente, raccontando il brutto e il bello della sua terra. Una terra che racconta anche coi presepi che ogni anno costruisce per regalarli agli amici.
Penna e taccuino, con una forza che viene da lontano messa ora a dura prova dalla vita blindata. «Esco solo quando è necessario. Passeggiare in piazza con la scorta è quasi un’ostentazione». Con la preoccupazione del marito e del papà. Ma con convinzioni forti, come gli enormi ulivi della Piana che Michele paragona ai calabresi, «quasi schiacciati dal peso del contesto sociale, ma che comunque nonostante questo loro contorcersi, si proiettano verso l’alto alla ricerca della luce». Lui lo fa, anche per noi, dal suo piccolo paese di Cinquefrondi, avamposto della legalità e della speranza.
Autore: Giuseppe Trimarchi
Mario, da tempo, lo definisce una via Crucis. E non potrebbe non essere così, il complicato processo che vede imputato Tommaso Costa con l’accusa di aver ucciso Gianluca Congiusta, il figlio di Mario.
Doveva essere il giorno della requisitoria, ma ieri la Procura Generale ha sollevato una questione di legittimità costituzionale e il processo a carico del boss Tommaso Costa, accusato di aver ucciso l’imprenditore sidernese Gianluca Congiusta, subisce uno stop di poco meno di un mese.
Per una “lettera” infatti, sarebbe stato ucciso Congiusta. Secondo l’accusa Congiusta infatti, sarebbe morto per essere venuto a conoscenza di un tentativo di estorsione perpetrato da Costa ai danni del suocero Antonio Scarfò. Un’estorsione di cui però nessuno doveva sapere, nessuno; soprattutto la ‘ndrina rivale dei Commisso. Sempre secondo l’impianto accusatorio, Congiusta venne a conoscenza delle mire espansionistiche del Costa, proprio dalla bocca della famiglia della sua fidanzata Katia. Costa a breve sarebbe uscito dal carcere ( dove si trovava già recluso per altri fatti di mafia ndr) , e quindi avrebbe dovuto “riacquisire” credibilità mafiosa a Siderno e dintorni, senza però che la cosca, quella veramente potente facente capo alla famiglia Commisso, venisse prematuramente a conoscenza dei suoi progetti criminali poiché altrimenti l’avrebbe pagata cara, così come già successo nella sanguinosa faida degli anni ’90 in cui la cosca Costa non ebbe di certo la meglio. Una volta appreso che questa lettera circolava, Costa una volta uscito dal carcere avrebbe ucciso Congiusta “reo” di averne appreso il contenuto. Durante il processo d’Appello tutta la corrispondenza di Costa però è stata dichiarata inutilizzabile. Ed è qui che si incastra la questione di legittimità avanzata dai pg Antonio De Bernardo e Domenico Galletta poiché le norme contenute negli articoli 18 e 18ter dell’ ordinamento penitenziario si porrebbero in contrasto con l’art. 3 della costituzione in considerazione della “irragionevole” disparità tra la disciplina dettata da queste norme – in materia di controllo della corrispondenza dei detenuti – e quella dettata dal codice di procedura penale in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali.: Queste ultime, infatti, possono essere disposte all’ insaputa dei conversanti, mentre il provvedimento di controllo della corrispondenza epistolare – secondo l’interpretazione delle sezioni unite – deve essere subito comunicato al detenuto. La legge, quindi, tratterebbe in modo diverso e senza una valida giustificazione due situazione sostanzialmente identiche, con conseguente violazione del principio di eguaglianza. Secondo l’accusa la questione oltre che fondata sarebbe rilevante nel processo in corso perché solo disponendo di tutte le missive la Corte sarebbe nelle condizioni di ricostruire compiutamente i fatti. Ieri l’avvocato Sandro Furfaro, difenore di Costa, si é opposto, ritenendo la questione infondata e comunque irrilevante, dal momento che gran parte del contenuto delle missive é confluito comunque nel processo attraverso le deposizioni testimoniali e l’esame degli imputati. L’otto febbraio si saprà quindi se l’Assise d’Appello trasmetterà la questione alla Corte Costuzionale oppure farà procedere l’accusa con la requisitoria.
di Roberto Galullo 13 gennaio 2016
Un altro buco nella rete illegale del gioco online in Italia e all’estero. A farlo, la Direzione distrettuale antimafia di Roma, lo Scico della Gdf, lo Sco della Polizia di Stato e la Squadra mobile della Questura di Roma.