Mentirono in aula- A giudizio gli ex suoceri di Gianluca Congiusta

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Rinviati a Giudizio anche la fidanzata Katiuscia ed il detenuto per truffa Gianluca Di Giovanni. Secondo l’accusa, avrebbero testimoniato il falso nel processo di primo grado.

 

scarfraso

Girolama Raso ed Antonio Scarfò

di Angela Panzera

Mentirono in aula. Rinviati a giudizio dal gup di Locri, Caterina Capitò, Antonio Scarfò, Girolama Raso e Katiuscia Scarfò rispettivamente ex suoceri ed ex fidanzata di Gianluca Congiusta, il giovane imprenditore ucciso a Siderno il 24 maggio del 2005.

Il gup infatti, li ha rinviati a giudizio per il reato di falsa testimonianza e per loro il processo partirà mercoledì 2 luglio. I fatti risalgono alle loro testimonianze registratesi dinnanzi la Corte d’Assise di Locri nel lungo dibattimento che ha fatto luce sull’omicidio dell’imprenditore sidernese e per cui i giudici condannarono alla pena dell’ergastolo il boss Tommaso Costa, attualmente sotto processo dinnanzi ad una nuova sezione della Corte d’Assise d’Appello reggina dopo che la Cassazione decise nei mesi scorsi l’annullamento con rinvio della condanna. Scarfò-Costa-Congiusta tre cognomi che non avrebbero dovuto incrociarsi. La triade però solo nell’ultima parte si compose della figura di Gianluca Congiusta. All’inizio infatti, Congiusta non sa nulla del tentativo estorsivo che il boss Costa intende perpetrare ai danni della famiglia Scarfò, solo in un secondo momento viene messo a conoscenza di questa circostanza, circostanza che pagherà con la vita perchè, secondo l’impianto accusatorio, Costa non era “autorizzato” ad avanzare pretese criminali a Siderno e per questo avrebbe deciso di “eliminare” chiunque potesse esserne a conoscenza e quindi anche Gianluca Congiusta. Costa aveva capito che non poteva tentare il suo volere, o almeno non lo poteva fare alle spalle dei Commisso, considerata la lunga faida. Gli inquirenti avevano capito tutto ciò e per questo scattò nel 2007 l’operazione “lettera morta”. Tommaso Costa optò per il rito ordinario e la sua difesa citò fra i testimoni i tre componenti della famiglia Scarfò. Per gli inquirenti le cose sono andate così: Antonio Scarfò, che era venuto direttamente a conoscenza della missiva estorsiva contente la pretesa di assunzione nell’impresa di famiglia di Pietro Costa, informò sia la moglie che Gianluca Congiusta. In aula però i due coniugi, lasciandosi andare in affermazioni abbastanza imbarazzanti, sostennero che ad aver informato Congiusta di questa missiva estorsiva era stata soltanto la Raso e non lo Scarfò che era rimasto all’oscuro di tutto. Dichiarazioni che non convinsero né l’accusa né i giudici che infatti trasmisero gli atti per falsa testimonianza alla Procura di Locri con il conseguente rinvio a giudizio. Il gup infatti, scrive che i tre hanno affermato il falso ed in particolare per la posizione di Antonio Scarfò che egli ha mentito quando in aula disse che l’assunzione di Pietro Costa era regolare e che non collegò l’omicidio del genero ai danneggiamenti e alle intimidazioni subite precedentemente. Per la posizione della Raso, il gup scrive che la donna avrebbe mentito quando riferì fra l’altro di non aver parlato col marito prima dell’omicidio di Congiusta e anche quando non ha saputo dare spiegazioni del messaggio inviato allo stesso Scarfò in cui, uscendo dal Commissariato di Polizia, “ricordava” al marito di dichiarare ai poliziotti che lui della lettera non sapeva nulla. Secondo gli inquirenti la Raso, mise in piedi questa versione per “tutelare” il marito da un’eventuale ritorsione dei Costa. “Gli Scarfò costruirono un fortino di protezione intorno a loro”: così è scritto nella sentenza di primo grado. Un fortino all’interno del quale non venne messo, stando alle carte processuali, Gianluca Congiusta, il loro ex genero che per anni aveva frequentato la loro casa e che una volta morto, non avrebbe meritato secondo loro neanche la verità.

fonte: Il garantista