L’“assessore” ai Lavori Pubblici della ‘Ndrangheta

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di Giuseppe Baldessarro

“Il frantoio aveva dato da mangiare a tutti, prima e dopo la morte di mio padre. Era stato generoso con noi, ma sapevo che quell’attività non sarebbe bastata a far vivere me e i miei fratelli una volta che ognuno avesse avuto una famiglia propria. Bisognava fare altro, inventarsi un’attività”.


Gaetano non volle firmare la ferma per restare nella polizia penitenziaria. Lo Stato lo aveva deluso ed è per questo che nel 1981 aveva deciso di tornare al lavoro del Frantoio. Andava bene anche il lavoro con il trattore. Gaetano ci faceva di tutto. Arava i campi, ripuliva gli uliveti, una volta montata una pala meccanica davanti al mezzo riusciva a sistemare stradine sterrate e sentieri, ripuliva gli alvei delle fiumare e le spiagge. Bastava chiamare, e Gaetano arrivava. Faceva qualsiasi cosa gli consentisse di portare a casa la giornata, sempre più bravo, preciso, puntuale.
L’esigenza di registrare l’impresa si era presentata quando il Comune iniziò a chiamarlo per piccoli lavoretti di manutenzione ordinaria e pulizia stradate. Se hai rapporti con le istituzioni devi essere in regola gli aveva detto il geometra del Comune. Saffioti se lo ricorda ancora quando lo chiamarono a palazzo di città. Era emozionato. Strano a pensarci ora, ma all’epoca, nell’81, il giorno che andò a incontrare i tecnici dell’amministrazione si sentiva orgoglioso, fiero. Era per lui un riconoscimento importante. Avrebbe lavorato per il Comune facendo quello che sapeva fare meglio: guidare il trattore. Era gratificante sentirsi al servizio della comunità.
Assieme al lavoro per aggiustare strade e scarpate iniziavano ad arrivare richieste da alcuni privati. Piccole cose, soprattutto nel movimento terra. Erano interventi di precisione, lui entrava in campo quando le grandi ruspe e gli scavatori non riuscivano a intervenire. Opere collaterali, roba che andava fatta di fino. C’era da guadagnare, ma soprattutto c’era da imparare. E Gaetano da questo punto di vista non si risparmiava.
Imparava e continuava a lavorare con il suo trattore. Ogni volta nuove sfide, sempre più impegnative con un mezzo che però era inadeguata. Anche demolizioni faceva, una cosa impensabile con un trattore delle dimensioni di quello di cui disponeva. Lavora, imparava e tesseva la sua rete di relazioni. Lui scavava e per il trasporto del materiale di scarto si rivolgeva a piccoli padroncini. Era un modo per dare lavoro, ma anche per riceverne.
Con gli incarichi arrivavano però anche le richieste degli “amici”, senza quasi che se ne accorgesse, c’era sempre qualcuno da accontentare. Gente a cui cedere parte delle opere, forniture da prendere da un’azienda piuttosto che da un’altra, trasporti da far fare a quelli che si presentavano a nome del ras locale, e poi il “presente” alle famiglie del paese o del quartiere. Un “regalo” per le famiglie dei detenuti, un riconoscimento per Tizio o Caio. “Un fiore” lo chiamavano, sottolineando che si trattasse di una sorta di atto dovuto.
E Gaetano Saffioti faceva quel che c’era da fare. Esistono due leggi in quell’ambiente. Una legge che è quella ufficiale dello Stato e che si trova scritta sui codici e sui contratti. L’altra che è quella di una realtà parallela incisa sulla carne viva dei luoghi e degli uomini che le dinamiche di quei luoghi determinano. La regola, al netto da ogni ipocrisia, diceva che per lavorare dovevi pagare. Ed era una norma che nessuno neppure si sognava di mettere in discussione.
A Palmi i boss della famiglia Gallico lasciavano agli altri solo le briciole. L’assessore ai lavori pubblici e privati, del clan si chiamava Sarò Sgrò “U Jancu”. Un uomo spietato che non nascondeva la propria arroganza e che trattava imprenditori e amministratori come fossero poco più che una nullità. Era così a metà degli anni ’80. Saffioti provava a ritagliarsi il suo spazio imprenditoriale, navigando a mezz’acqua ed evitando di pestare i piedi a chi avrebbe potuto spazzarlo via come un niente. Intanto stringeva rapporti e sognava in grande, sia pure sapendo che prima o poi con quelli come Sgrò avrebbe dovuto fare i conti.
fonte:R.it

La storia di Gaetano

di ATTILIO BOLZONI

E’ rimasto nella sua Calabria, non se n’è voluto andare. Non ha cambiato identità, la sua azienda è ancora a Palmi, nella grande piana. E poi non ha mai chiesto un centesimo allo Stato. Mai una protesta, mai un’intervista sopra le righe, mai una “piazzata“ davanti a un Tribunale o a una Prefettura per gridare la sua solitudine o – come usano alcuni suoi colleghi che hanno capito come funziona – a battere cassa, chiedere soldi e ancora soldi e sempre soldi. Ha fatto quello che sentiva di fare. E oggi, nel bene e nel male, fa i conti con la sua scelta di libertà. Gaetano Saffioti è un esempio molto raro di calabrese e di imprenditore.
Qui raccontiamo la sua storia raccolta da Giuseppe Baldessarro – che già l’anno scorso aveva scritto un bel libro (“Questione di Rispetto”, Rubbettino editore) – da quando ha conosciuto la ‘Ndrangheta da bambino sino al giorno che ha deciso di non sottostare più ai ricatti e alle umiliazioni dei boss.
E’ un testimone di giustizia, dal 2002 è sotto scorta per avere denunciato i più pericolosi capibastone della Piana, terra fertile e terra maledetta, giardini di aranci e l’inferno dei Piromalli, dei Bellocco, dei Gallico, dei Nasone. Nomi che fanno sprofondare una regione intera negli abissi, uomini che sono stati sfidati da un piccolo imprenditore che per anni e anni aveva subito estorsioni fino a quando si è ripreso la sua dignità.
Nel racconto di Giuseppe Baldessarro c’è tutta la vita di Gaetano. Dal giorno che per la prima volta ha sentito parlare di “maffia” (con due “f”, come si diceva una volta) alle prime richieste di denaro per poter aprire i suoi cantieri, dalla paura che ha accompagnato la sua esistenza sino al coraggio di presentarsi davanti a un ufficiale della Guardia di Finanza a un procuratore della repubblica.
E’ una storia semplice quella di Gaetano Saffioti. E nella sua semplicità spaventosa. Non solo per la ferocia degli aguzzini della ‘Ndrangheta, soprattutto spaventosa per la viltà di coloro che stanno intorno a carnefici e a vittime, per la loro rassegnazione, la sottomissione. Con il suo gesto Gaetano mostra a tutti noi che si può fare. Lui l’ha fatto.