Omicidio Congiusta. Le motivazioni con cui la Cassazione ha assolto il boss Tommaso Costa

Print Friendly, PDF & Email

Roma. I moventi alternativi all’omicidio di Gianluca Congiusta sono stati totalmente esclusi dalla seconda sentenza d’appello, ma ciò non basta.

Dicono questo, in sintesi, le motivazioni della sentenza con la quale la Cassazione, lo scorso 19 aprile, ha annullato senza rinvio la condanna all’ergastolo per il boss Tommaso Costa, ritenuto dalla Dda l’assassino del giovane imprenditore di Siderno. Secondo la tesi dell’accusa, Congiusta sarebbe stato ucciso per essere venuto a conoscenza della lettera estorsiva fatta recapitare da Costa al suocero Antonio Scarfò, che poi consegnò la lettera al genero affinché intervenisse. Il boss, dunque, avrebbe ordito l’omicidio per eliminare un testimone scomodo e lanciare un segnale alla cosca rivale, i Commisso, uscita vincitrice dalla faida che aveva decimato la famiglia avversaria. L’omicidio si è consumato il 24 maggio 2005, nel periodo di latitanza di Costa, uscito dal carcere grazie all’indulto. Ma gli elementi a sostegno della tesi dell’accusa, secondo la Cassazione, non hanno superato il limite del ragionevole dubbio.
Il processo ha avuto un iter lungo e complesso: dopo due ergastoli, il procedimento era arrivato una prima volta in Cassazione, che aveva chiesto di escludere i moventi alternativi, ovvero la possibile usura esercitata da Congiusta e il movente passionale, rinviando così tutto ad un nuovo giudizio d’appello. Così, nel secondo processo in Corte d’Assise a Reggio Calabria, con oltre quaranta testimonianze erano state analizzate nel dettaglio le ragioni alternative, escluse poi dalla Corte d’appello, che aveva indicato in Tommaso Costa l’unico possibile autore di quell’atroce delitto. Ma per i giudici della Suprema Corte, «la sentenza impugnata non ha rispettato le indicazioni espresse dalla sentenza rescindente, rimanendo all’interno del perimetro già ritenuto illegittimo da detta sentenza». Nessun vizio di legittimità per quanto riguarda le piste alternative, «in relazione all’ampio approfondimento istruttorio svolto dai giudici di merito che, senza vizi logici, ha escluso la emergenza di qualsiasi elemento a sostegno di moventi alternativi e – segnatamente – rimanendo incontestata l’affermazione dei giudici di merito circa la completa mancanza di ragioni per le quali il Salerno (Salvatore, indicato dai difensori di Costa come vero assassino della vittima, ndr) avrebbe dovuto uccidere il Congiusta». Ma rimane, in ogni caso, «generico il ragionamento della Corte di merito che inscrive la vicenda omicidiaria nel contesto criminale coltivato dal ricorrente specie dopo la sua scarcerazione – facendosi leva anche sulla condanna per analogo fatto di sangue commesso nel medesimo periodo di latitanza, come pure risulta carente la giustificazione in ordine alle ragioni dell’omicidio in funzione della ritenuta sovraesposizione della vittima dopo il recapito della lettera estorsiva, rimanendo sicuramente inspiegato il lungo lasso temporale tra l’emergenza del fatto e la verificazione dell’omicidio, avvenuto anche dopo quattro mesi dalla scarcerazione del ricorrente».
Un omicidio consumato, dunque, con un certo “ritardo” rispetto alla scarcerazione di Costa, che una settimana prima del delitto aveva incontrato il suocero di Congiusta, vittima delle richieste estorsive del boss di Siderno. Costa, a luglio 2005, ha poi ucciso Pasquale Simari, un’esecuzione che gli è costata il carcere a vita e con la quale il boss di Siderno, secondo i giudici, «ha lanciato un messaggio» presentandosi «a volto scoperto in una piazza gremita, con la freddezza del criminale consumato», dando luogo «ad un’esecuzione dall’elevato contenuto simbolico, sopprimendo un soggetto che aveva osato allontanarsi dalla consorteria cui era stato vicino, dominante in quel paese, addirittura disattendendo gli avvisi espliciti rivoltogli, accostandosi e porgendo ossequio, una volta che questi era deceduto, all’appartenente ad una cosca rivale».
Per gli ermellini, però, «quello che la sentenza individua come mandato omicidiario del Costa non supera la già censurata inidoneità giustificativa: lo stato temporale tra la sua ritenuta manifestazione (28 gennaio 2004, ovvero durante la carcerazione, ndr) e la verificazione dell’omicidio (24 maggio 2005) non è riempito da alcun elemento che lo giustifichi». Quel 24 gennaio Costa scrisse al suo fidato sodale Giuseppe Curciarello, condannato già in via definitiva per associazione mafiosa. «Per quello che ti dovevo chiedere e che nel breve tempo possibile deve scomparire la vol­pe – scriveva il boss – visto che ha fatto stragi di galli. È un fat­to di assoluta urgenza e riservatezza. Se uscivo io era mio dovere, ma siccome non si sa quanto tempo ci vuole io ho questa urgenza. Lo so quello che ti sto chiedendo, ma io sono un uomo fino all’ultimo respiro e tu che sei mio fratello non puoi dirmi di no». Ed è questo, per i giudici, un altro elemento non adeguatamente valutato, in quanto Costa avrebbe dato a Curciarello, secondo la loro interpretazione, il mandato di «individuare» il soggetto responsabile «della “infamità” commessa ai danni del boss sidernese». Si tratta quindi di un «mandato omicidiario in incertam personam. In tal modo palesando la inconsistenza dell’elemento a contribuire all’individuazione di quel tassello di cui la sentenza rescindente aveva indicato la necessità». Rimane inoltre «lo scollamento temporale ad onta della sua proclamata urgenza – dell’individuato mandato omicidiario al sodale Curciarello di un anno e mezzo anteriore alla verificazione dell’omicidio anche dopo quattro mesi dalla scarcerazione del Costa, senza che alcun altro elemento giustifichi il duplice iato. Inoltre, la individuazione della ragione per la quale non fosse stato preso di mira l’estorto ma il Congiusta riposa sull’indimostrata natura punitiva dell’omicidio e della circostanza che il Congiusta fosse “l’anello forte della resistenza all’estorsione”, risultando – invece – che, fino a pochi giorni prima del suo assassinio, l’uomo era ancora un punto di riferimento degli estorsori».
Era stato lo stesso Antonio Scarfò, ad ammettere, dopo aver negato per paura la vicenda e guadagnandosi una condanna per falsa testimonianza, che il delitto potesse essere connesso alle richieste estorsive avanzate da Costa, per le quali Congiusta aveva il «torto» di essersi «interposto per difendere la famiglia della fidanzata», stando alla risposta data da Scarfò al pm. Ma né queste dichiarazioni, né quelle del pentito Vincenzo Curato, che ha dichiarato di aver appreso dal fratello di Tommaso Costa, Giuseppe, attualmente collaboratore di giustizia, della responsabilità di Tommaso nel delitto, «individuano alcun specifico elemento che possa concorrere a soddisfare il dictum della sentenza rescindente».

Insomma, la sentenza del secondo appello avrebbe riproposto lo stesso ragionamento già censurato, senza l’ulteriore tassello a giustificare il collegamento tra Costa e l’omicidio di Congiusta.

La Cassazione concorda con la Corte d’appello nel dire che nessuno degli elementi emersi nel corso del nuovo processo di merito «ha consentito di accreditare in modo minimamente apprezzabile alcuna delle causali alternative inizialmente adombrate con riferimento all’omicidio del Congiusta».

Quella usuraria, infatti, è stata esclusa sia con riferimento agli assegni rinvenuti presso la vittima dopo il suo omicidio, sia all’ipotizzato coinvolgimento della vittima in un circuito di prestiti usurari, anche in relazione a collegamenti con Carmelo Muià (coinvolto in processi di criminalità organizzata e ucciso lo scorso gennaio a Siderno).
La pista passionale, invece, è stata esclusa in ragione non solo della circostanza che la medesima fonte (la madre della vittima) «non può aver taciuto notizie rilevanti a riguardo ma anche per la considerazione che le espressioni da lei pronunciate nei colloqui intercettati si mostravano come frutto di riflessioni, dubbi e timori in una condizione psicologica disperata». Infine, quanto alle dichiarazioni di Gianluca Di Giovanni in relazione ai suoi rapporti con la vittima, «ne è stata ritenuta l’assoluta inattendibilità ed inverosimiglianza richiamando anche la intervenuta condanna per falsa testimonianza». Non convince, infine, l’attribuzione dell’omicidio a Salvatore Salerno, poi ucciso per aver tradito la sua appartenenza alla cosca Commisso. La Corte d’appello ha escluso, a fronte della definitiva condanna di Costa per la tentata estorsione a Scarfò, «che analoghi interessi estorsivi nei confronti di questi potessero ritenersi accertati a carico del Salerno e che – al di là di tutto – non si rinveniva quale potesse essere la molla che aveva indotto il Salerno ad uccidere il Congiusta». A partire da colloqui in carcere con i familiari e dalla corrispondenza epistolare sottoposta allo stesso Costa.
Congiusta, pochi giorni prima di morire, aveva confidato a Domenico Oppedisano – fratellastro del boss Salvatore Cordì, ammazzato il 31 maggio 2005, poi diventato testimone di giustizia – delle richieste estorsive fatte da Curciarello per conto di Costa, confidando «di essersi messo in una situazione più grande di lui». Inoltre, emerge il complessivo atteggiamento di timore e reticenza degli Scarfò sui rapporti con i Costa e il collegamento – ricavato dalle intercettazioni – fatto dallo Scarfò dell’omicidio del Congiusta con la catena di intimidazioni subita da anni, nonché l’ammissione fatta in dibattimento dallo stesso, con la quale aveva ricondotto l’omicidio alla circostanza che il giovane si fosse interessato della questione della lettera, cercando di risolverla. E il padre della vittima aveva appreso dallo Scarfò che, poco dopo l’omicidio, qualcuno gli aveva anche puntato una pistola alla testa.
In merito alle dichiarazioni di Curato, nel corso del secondo processo d’appello lo stesso ha affrontato in un colloquio in aula Giuseppe Costa, che in carcere, a dire di Curato, gli aveva fatto delle confidenze «in ordine alla responsabilità dell’imputato per l’omicidio». Dichiarazioni che hanno suscitato una violenta reazione di Tommaso Costa, captata in un colloquio in carcere con i figli ed il nipote, e che il fratello pentito, in aula, ha prima negato, salvo poi ammettere «la possibilità che l’autore dell’omicidio fosse il fratello che era giunto a disconoscerlo». Risultava, poi, un colloquio del collaboratore Giuseppe Costa con la moglie, nel quale i due evocavano le terribili minacce rivolte da Tommaso Costa alla figlia della donna «e la sua capacità di uccidere anche senza ragione», scrivono i giudici. Ma questi elementi, affermano i giudici della Suprema Corte, non bastano. Per loro, Tommaso Costa rimane “soltanto” un boss di ‘ndrangheta. E il nome dell’assassino di Gianluca Congiusta un mistero.
Simona Musco
Fonte:NEWZ.IT