Gli ultimi “carvunàri” nella Calabria che resiste

Le immagini di Fabrizio Villa ritraggono il lavoro dei carbonai di Serra San Bruno, un paese di settemila abitanti in provincia di Vibo Valentia, in Calabria. Qui il carbone si produce con la stessa, antichissima tecnica che risale ai fenici. Fabrizio Villa è tornato di recente a Serra San Bruno dopo esserci stato dieci anni fa e ha ritrovato impegnati in un lavoro usurante i figli e i nipoti degli stessi carbonai che aveva fotografato allora.
di CARMINE ABATE  foto FABRIZIO VILLA*

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Una volta ho sentito dire a uno dei pochi carbonai che ancora lavorano a Serra San Bruno: «Siamo come i panda, in via d’estinzione». Lo diceva con amarezza e un pizzico di orgoglio, consapevole di essere tra gli ultimi eredi di un mestiere millenario, svolto allo stesso modo dei fenici, che probabilmente lui non sapeva chi fossero. Questo mestiere, che consiste nel trasformare la legna in carbone e che richiede una maestria e una fatica fuori dal comune, i carbonai lo hanno imparato dai padri e dai nonni.
In passato Serra San Bruno era più nota per i suoi carbonai che per la splendida Certosa. Erano in tanti del paese che facevano i carbonai, e i boschi delle Serre non potevano bastare per tutti. E così si spostavano nei territori collinari o montani ricchi di lecci e di faggi, dove vivevano finché c’era la materia prima, la legna, e poi si stabilivano altrove.
Anche il mio paese, che è circondato da un superbo bosco di lecci, è stato meta dei cosiddetti carvunàri di Serra San Bruno. Ricordo che una famiglia di carvunàri si era stabilita in una casa della Cona, gli adulti stavano notte e giorno nel bosco, e i bambini frequentavano la mia scuola. Una domenica uno di loro mi chiese di accompagnarlo dal padre e io, che conoscevo la strada, accettai volentieri. Impiegammo più di due ore di cammino e quando arrivammo in un grande spiazzo senza alberi vidi una montagnola fatta di pezzi di legna della stessa lunghezza, più grossi alla base e più fini verso l’alto. Era la carbonaia, perfettamente circolare ed enorme, almeno tre o quattro volte l’altezza del padre del mio amico, un uomo magro e slanciato, che continuava a salire e scendere lungo una scala di legno appoggiata alla montagnola, infilando paglia e frasche nella buca in cima e infine appiccandovi il fuoco. A quel punto due o tre carbonai coprirono la montagnola con terriccio, frasche e ancora terriccio, per poi compattare il tutto con violenti colpi di pala e infine bucarla qua e là con un bastone appuntito come una spada.
La carbonaia aveva ora le sembianze di un piccolo vulcano che eruttava scintille e fumo azzurro dal cratere e dai fori delle pareti, anzi quello era vapore, che se lo respiri non ti fa male, come mi spiegò il padre del mio amico, e quando fra una ventina di giorni diventa bianco vuol dire che il carbone è cotto al punto giusto e si può vendere. Nel frattempo bisognerà civarla meglio di un figlio, la carbonaia, con altra legna e paglia e, se a causa del vento c’è un principio d’incendio, con l’acqua del ruscello. Altrimenti, se la legna s’infiamma, va in fumo il lavoro di mesi e noi carvunàri mangiamo capocchie.
Il padre del mio amico e numerosi carvunàri di Serra San Bruno hanno resistito fino a quando il gas e il carbone dell’Est hanno invaso il mercato. Poi sono emigrati anche loro all’estero o al Nord Italia. Quei pochi che resistono continuano a lavorare dalle cinque del mattino alle otto di sera; spesso si alzano la notte per andare a controllare se la loro creatura sta maturando bene, non importa se è domenica o Pasqua o Ferragosto; sanno che il loro carbone è di qualità superiore, prodotto da alberi sani e profumati, mai bagnati da piogge acide, tant’è che viene richiesto non solo nei migliori ristoranti italiani ma pure in quelli russi per la carne alla brace.
Prima che scompaiano del tutto, gli ultimi “panda carbonai” di Serra San Bruno meriterebbero di essere protetti, aiutati e valorizzati per quello che fanno e che sono: il simbolo della Calabria che lavora con passione e che resiste.

*L’AUTORE
Fabrizio Villa è nato nel 1964, è fotografo e giornalista Da 30 anni intreccia nel suo lavoro testimonianze legate al disagio sociale, all’immigrazione e alle guerre con storie d’attualità, fenomeni naturali, ritratti di protagonisti del nostro tempo. Le sue immagini e i suoi servizi sono pubblicati da giornali italiani e internazionali. Ha fotografato per conto di diverse agenzie internazionali. Fra queste, l’Associated Press, Agency France Presse e l’italiana Contrasto. Nel 2004 ha vinto il premio dell’Unione Stampa Cattolica Italiana per un’immagine sull’immigrazione clandestina in Sicilia. Nel 2011 ha ricevuto il premio internazionale di giornalismo intitolato a Maria Grazia Cutuli. Molti dei suoi reportage fotografici sono stati esposti in diverse mostre.

Carmine Abate ha vinto il premio Campiello con La collina del vento ( Mondadori, 2012). Il suo ultimo libro è Il banchetto di nozze e altri sapori ( Mondadori 2016)

fonte R.it