Donne del Sud-La storia le ha definite “donne coraggio”

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La Sicilia,  la Calabria la malavita e il dolore femminile

 Donne del Sud-Vittime di mafia: la storia
le ha definite ‘donne coraggio’

di Margherita Ingoglia –

 Gianluca Congiusta con la mamma Donatella

 “Dobbiamo tornare a scioccarci ad indignarci. Dobbiamo diventare la città dello choc”. Si chiude con queste parole lo speciale andato in onda ieri sera su Rai1. Un commuovente omaggio  dal titolo “Donne del sud” ha ripercorso la storia di vita di coloro che hanno vissuto il dolore della morte dei loro cari. Morti per mano della mafia.

 “Crescendo ci si rende conto dell’ingiustizia subita. Di tutte le gioie vissute a metà, di quello che è sempre mancato. Abbiamo diritto a pretendere un cambiamento. Ma abbiamo anche il dovere di impegnarci per questo. Reagire. Avere parte. Prendere parte.” Sono queste le parole di Alessandra Clemente figlia di Silvia Ruotolo, quest’ultima assassinata l’11 Giugno 1997 per mano della camorra.. Alessandra crede fortemente nel cambiamento del popolo, nella svolta definitiva verso una società che non ha più bisogno della parola ‘mafia’. Alessandra è una ragazza di 25 anni, oggi vive a Napoli dove studia per diventare magistrato. L’undici Giugno 1997 Alessandra aveva solo dieci anni. Quel giorno si trovava a casa, nel quartiere Vomero, era affacciata al balcone in attesa che la madre tornasse con il fratello di 5 anni che era appena uscito da scuola. Alessandra vede quel giorno la madre e il fratello avvicinarsi verso casa, poi il boato degli spari una nebbia di fumo e nient’altro. L’obiettivo non era Silvia, ma la camorra sparava all’impazzata: Silvia non era nei piani. Quell’undici Giugno Silvia Ruotolo perdeva la vita senza un vero motivo.

“Mi batterò e farò di tutto affinché loro non premano più il grilletto, affinché la mafia non faccia più vittime. Forse quando erano piccoli anche loro avranno passato momenti brutti, allora dobbiamo aiutarli”. Quanto coraggio serve per pronunciare queste parole? Sembra una frase da non riuscire a scrivere. Si pensa che le uniche parole che dovrebbero essere pronunciate da quelle labbra sono rabbia e dolore, vendetta. Ma la sola rabbia e la vendetta non possono che partorire altro dolore.  E per una donna il parto non è che il momento più lieto della sua vita; così, una donna, nella rabbia e nel dolore, tra le lacrime di coraggio e il sorriso tiepido che a stento sorregge il pianto mentre guarda la foto del figlio, chiede che i mafiosi vengano aiutati. Quegli stessi che hanno tolto la vita al suo.

Questa donna si chiama Donatella Catalano, madre di Gianluca Congiusta. La famiglia Congiusta abita a Siderno, in Calabria insieme al padre e alle due sorelle. A 17 anni, Gianluca scopre di essere affetto da una leucemia fulminante ma la determinazione permetterà a Gianluca di vincere questo cancro. Dopo il diploma inizia a lavorare presso un’azienda di telefonia mobile nella sua città ma ben presto un altro male comincerà ad affliggerlo, un cancro diverso che si chiama ‘ndrangheta.

Gianluca si ribella ancora una volta al male, rifiuta di pagare il pizzo. Questo genere di male è insidioso e perverso e non accetta compromessi, così la sera del 24 maggio 2005 Gianluca veniva ucciso da quel male mentre tornava a casa a bordo della sua auto.

Dietro ognuno di quei nomi c’è una famiglia, una storia, una ferita che non riuscirà  ad essere risanata.  Ma nel cuore di queste donne, imbevuto di acque profonde, si cela anche il respiro della determinazione e della giustizia che vuol rendere liberi quei nomi che hanno dovuto subire le catene della sopraffazione per mano  della mafia.

Libertà a coloro che per questa sono morti. Uccisi, per mano di padri con un nome ingombrante da dover rispettare. Lui si chiamava Antonino Pipitone, era un importante boss mafioso, una vera autorità nel rione dell’Acquasanta, feudo inviolabile di Cosa Nostra a Palermo. Lei, Lia Pipitone invece era un’artista, una ragazza libera che da sola voleva decidere chi sposare. Si ribella all’autorità del padre, Lia si ribella alla mafia. Ma quella libertà le verrà negata prima da cinque colpi di pistola in un negozio di sanitari, poi da un oblio lungo oltre vent’anni. Oggi, grazie al figlio Alessio  e al giornalista Salvo Palazzolo, quella libertà lei l’ha ottenuta.

“Io non sapevo cosa significasse la parola ’ndrangheta, per me era un concetto astruso perché non lo avevo mai toccato con mano. L’ho conosciuta nel momento in cui mio padre è stato rapito e ucciso perché si era rifiutato di pagare il pizzo.” – per dieci anni Deborah Cartisano ha scritto alle testate giornalistiche, lunghe lettere indirizzate ai sequestratori del padre affinché quest’ultimi le  indicassero dove si trovava il corpo. Lui era il fotografo Lollo Cartisano sequestrato e ucciso negli anni Novanta a Bovalino perché si era rifiutato di sottostare al ricatto delle cosche. “La tragedia che abbiamo vissuto come famiglia ci ha trasformato ma abbiamo cercato di reagire facendo rivivere papà attraverso il nostro impegno sociale, in un progetto ‘Se Caino aiuta Abele’. Finchè un giorno nel cuore duro di uno dei carcerieri si è aperta una breccia. Ha inviato una lettera con la quale chiedeva perdono per quello che aveva fatto e alla famiglia di Debora ha indicato la località dell’Aspromonte dove era stato sepolto il corpo.

“Anche per voi c’è possibilità di perdono, ma vi dovete mettere in ginocchio se avete il coraggio di cambiare.”  Il potente perdono della vedova Schifani urlato con profondo cordoglio il giorno dei funerali delle vittime della strage di Capaci. Il sorriso della vedova Montinaro che spera nel paradiso per parlare ancora con il marito Antonio Montinaro, poliziotto della scorta di Giovanni Falcone, rimasto ucciso quel 23 Maggio 1992. Date, volti, nomi di coloro che per senso del dovere e “spirito di servizio”, come lo definì Giovanni Falcone, hanno fermato il tempo in quegli anni in una storia che a distanza di vent’anni cerca di liberarsi da quella parola.

“Tanto dolore tanto pianto, tra rabbia, sgomento, buio e sangue. Sono segnata da tutti i morti ammazzati e da tutte le donne che ho sentito gridare” –  un’immagine, una foto che sembrano ripetere all’infinito quel sentimento, quei giorni. Quelle immagini senza colori, sfogliati come documenti umani nelle fotografie di Letizia Battaglia che negli anni, attraverso la sua macchina fotografica, ha impresso proprio quelle pagine di storia. Il volto segnato delle donne e la violenza con cui la mafia faceva barbarie dei corpi delle sue vittime. Quanti nomi e quante storie si dovranno ancora raccontare prima che questa vicenda cambi il suo finale? Giovanni Falcone chiamò la mafia un fatto umano ed era certo che un giorno, la parola mafia sarebbe stata letta solo nei libri di storia.  – Non si può più perdonare. Basta”.

Silenziose e appassionate. Vedove nel loro lavoro. Guerriere di pace, faticano nella bellezza, faticano per la bellezza. La storia le ha definite ‘donne coraggio’. Le hanno chiamate eroine,  ma loro, con la loro umiltà hanno trasformato in amore quel dolore senza nome.

Loro sono semplicemente donne, donne del sud.

fonte: Sicilia informazioni.com