“Era un mafioso, niente funerale”. La svolta storica del vescovo di Agrigento

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“Era un mafioso, niente funerale”. La svolta storica del vescovo di Agrigento

Monsignor Francesco Montenegro vieta le esequie di Giuseppe Lo Mascolo, arrestato pochi giorni prima di morire con l’accusa di essere il boss di Cosa nostra a Siculiana: “L’unico modo per imbavagliare la mafia è rifiutare i compromessi”

di Giuseppe Pipitone |

Nella chiesa del Santissimo Crocifisso di Siculiana (Agrigento) era già  tutto pronto per i funerali di Giuseppe Lo Mascolo, ultrasettantenne deceduto due giorni prima a causa di un ictus. Il parroco don Leopoldo Argento però ha dovuto fermare la funzione: niente esequie per Lo Mascolo, ma soltanto una preghiera e la benedizione della salma. Il motivo? Lo Mascolo era considerato il nuovo boss mafioso di Siculiana, e l’ordine della Curia è stato netto: nessun funerale in chiesa per boss e presunti tali. Arrestato solo pochi giorni prima di morire nell’operazione della polizia “Nuova Cupola”, per gli inquirenti  Lo Mascolo era infatti uno dei personaggi più importanti della cosca, secondo soltanto ad Antonino Gagliano, il presunto capo mandamento della zona.

In passato il piccolo comune aveva guadagnato le pagine dei giornali a causa di boss mafiosi come Pasquale Cuntrera e Gerlando Caruana, diventati i principali gestori del narcotraffico su scala mondiale. Oggi invece Siculiana celebra la storica scelta di monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della commissione episcopale della Cei, che vietando le esequie religiose per un boss mafioso crea di fatto un importante precedente. 

Per la verità non è la prima volta che il presule della città dei templi prende posizione contro Cosa Nostra. “L’unico modo per imbavagliare la mafia è  fare sul serio, amare e cercare la verità e il bene, rifiutare la mediocrità, i compromessi e il conformismo. Se la mafia c’è è anche colpa nostra” aveva detto monsignor Montenegro durante i festeggiamenti in onore di San Calogero, il santo patrono. “La mafia deve essere combattuta a partire dalle feste religiose, momento storicamente molto caro ai boss di provincia” è invece il commento del sacerdote Carmelo Petrone, direttore del settimanale diocesano L’amico del Popolo.

Parole lontane anni luce dall’atteggiamento tenuto negli anni ’60 dal cardinale di Palermo Ernesto Ruffini.  “Che cos’è la mafia? Forse una marca di detersivi?” scherzava Ruffini con i giornalisti. I rivoli della storia di Cosa nostra raccontano infatti di un atteggiamento per nulla ostile tenuto da alcuni ministri del culto nei confronti di importanti boss mafiosi.

Il caso più famoso è forse quello di padre Agostino Coppola, parroco di Carini e nipote del boss italo americano “Frank Tre Dita” Coppola. Il sacerdote fu arrestato nel 1976 perché sarebbe stato complice del boss Luciano Liggio, che in quegli anni si dedicava con profitto ai sequestri di persona. In alcuni casi sarebbe stato padre Coppola a recarsi dalle famiglie dei sequestrati per riscuotere il riscatto. “Agostino Coppola è mafioso, è stato punto, è organico a Cosa nostra e fa parte della famiglia di Partinico” raccontò il pentito Antonino Calderone a Giovanni Falcone. Secondo alcuni fu proprio il parroco di Carini a celebrare il matrimonio segreto di Totò Riina con la sua Ninetta Bagarella.

L’ombra di Cosa Nostra si allungò in passato anche su monsignor Salvatore Cassisa, arcivescovo di Monreale, accusato a più riprese di collusione mafiosa e appropriazione indebita e poi sempre assolto. Cassisa, priore dell’Ordine dei cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme, era in stretto contatto con il conte Arturo Cassina, il re degli appalti nella Palermo di Salvo Lima e Vito Ciancimino. Alla fine degli anni ’80 cercò di pressare il neosindaco di Palermo Leoluca Orlando per liquidare in tempi brevi alcuni crediti miliardari alle ditte di Cassina. Orlando si rifiutò nettamente. E Cassisa per tutta risposta gli tolse il saluto.

Un netto taglio con il passato avvenne sicuramente il 9 maggio del 1993. “Mafiosi pentitevi, verrà il giorno del giudizio di Dio” fu il monito pronunciato da papa Giovanni Paolo II nella  valle dei templi di Agrigento. Proprio la stessa zona in cui oggi monsignor Montenegro vieta i funerali religiosi per i mafiosi.