Diario dai campi di Libera-Don Milani-Secondo giorno-Incontro con don Ciotti

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Diario dai campi di volontariato di:


 

10 agosto.

Incontro con don Luigi Ciotti


“La lotta alle mafie si fa a Roma, in parlamento, con le leggi giuste, la cultura, le politiche sociali e la partecipazione”.

 

“Quello che siamo dipende dal letto in cui ci svegliamo”: Francesco e Giuseppe, organizzatori del campo di studio e lavoro di LiberaTerra che si tiene a Gioiosa Jonica in questi giorni, vogliono aiutarci ad essere maggiormente consapevoli della realtà del territorio di cui siamo ospiti e ad affinare lo sguardo su ciò che ci circonda. Per far questo ci offrono la preziosa occasione di incontrare Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, che viene accolto con grande emozione nella sala luminosa del centro Don Milani. Il presidente dell’associazione fa gli onori di casa, rinnovando un legame che ha radici profonde nel quale improvvisamente stringe anche le nostre vite, chiamandoci in prima persona ed invitandoci da subito a cogliere il valore profondo dell’esperienza in cui siamo stati calati.

A precedere la parola di Don Ciotti è la figlia di Lollò Cartisano, Debora, con la preziosa testimonianza della sua battaglia per conoscere la verità sulla morte del padre.

Insieme a Debora, sono tanti i familiari delle vittime di mafia, che don Luigi definisce come coloro che hanno scritto la più bella pagina del nostro Paese: hanno perso i loro cari e, nonostante questo, non si sono piegati al dolore, ma sono stati in grado di farlo germogliare in fiori di dignità e desiderio di giustizia.

“Le famiglie, le vittime delle mafie, sono loro la vera autorità in questa lotta”. Questa presenza robusta e coraggiosa, come cavalieri seduti alla stessa tavola, uomini e donne che combattono ogni singolo giorno con la tenacia che esige una ferita che brucia, pretendendo riconoscimento e cambiamento, per spezzare il circolo vizioso dell’abitudine e dell’accettazione tacita della violenza. Come ci raccontano gli occhi di Mario Congiusta e il maggiolone giallo parcheggiato davanti alla sede del Don Milani, o ancora l’insegna di legno con i nomi di Gianluca e Lollò piantata prima sull’Aspromonte e oggi davanti a noi.



Libera è stata in grado di colmare il vuoto dello Stato, di dare un supporto psicologico alle famiglie delle vittime delle mafie, di creare una RETE, di farle sentir parte di una grande famiglia:

“Bisogna fare rete, unire ciò che la mafia divide”.

Per questo nasce la Giornata della Memoria e dell’Impegno che ricorre ogni 21 marzo, memoria profonda, senza retorica, ma restitutiva di umanità per coloro che vengono chiamati per nome, uno ad uno,vittime innocenti di tutte le mafie:

“Il primo diritto di ogni persona è quello di essere chiamata per NOME. Le persone non sono casi, utenti. Non cadiamo nel rischio di semplificazioni ed etichette”.

Don Luigi, chiama per nome anche noi, seduti tutt’intorno, con gli sguardi sospesi, incuriositi, ”lo sguardo sereno di chi si sente parte” (come sta scritto su uno dei murales della cittadina di Diamante)…bello se potessimo averlo tutti…Ci chiede chi siamo, da dove veniamo, perché siamo lì, perché abbiamo scelto di rispondere a questa chiamata, di partecipare a questi campi, che, come dice lui sono un segno di grande fermento e di speranza.

La nostra presenza, il nostro impegno, ci grida, devono essere DENUNCIA, come atto di serietà, coerente, cosciente, approfondita, documentata.

Una denuncia che evidentemente colpisce nel segno. Chi lavora sui beni confiscati dà il proprio schiaffo alle organizzazioni mafiose. Ci sono segni amari ma positivi – in Sicilia il grano seminato su 4 ettari di terreno è stato rubato il giorno prima della trebbiatura. “Hanno organizzato tutto il giorno della festa patronale quando i fuochi d’artificio coprivano i rumori”; nella Valle del Marro 500 piante di ulivo sono state bruciate – segni che indicano che questa è la strada giusta, che il lavoro di LiberaTerra sui campi confiscati non passa inosservato ma mina alla base  la credibilità e il controllo sul territorio della malavita organizzata.

La storia delle confische inizia con il sogno di Pio La Torre, espressione di un impegno politico alto e trasparente, che propone, appoggiato da quella rete di associazioni che oggi costituisce Libera, il disegno di legge sui beni confiscati. La Torre però non riuscirà a vederne la realizzazione, ucciso quattro mesi prima che la legge venisse approvata (Legge Rognoni-La Torre, 1982).

Oggi questa legge porta sempre maggiori frutti: sono 11 mila i beni confiscati consegnati ai comuni poi assegnati alle associazioni e alle cooperative sociali. Beni che arrivano a noi nella maggior parte dei casi senza le porte, senza le pacchiane vasche da bagno a conchiglia, senza nemmeno le prese elettriche e senza le lussuose maniglie dorate della villa di Corleone di Totò Riina. Beni spesso sottoposti ad ipoteca bancaria, o a mille altri inghippi che fanno da freno ad un effettivo riutilizzo per la collettività.

C’è un continuo dialogo tra Don Ciotti e noi, ci invita a riflettere e ad affinare la nostra attenzione, in risposta alle numerose domande ci avverte, prima di tutto, che non bisogna più parlare di “mafie“, ma quello su cui dobbiamo focalizzarci è tutta la VIOLENZA che accompagna ogni situazione d’illegalità.

Prosegue parlando di una “giustizia sospesa” nel nostro paese, di un’ambiguità di fondo delle istituzioni, di una schizofrenia tra quello che viene detto e quello che viene fatto nella gestione del potere. Solo per fare alcuni esempi la corruzione pubblica ammonta a 60 miliardi di euro “un furto che la società fa a se stessa”; l’Italia non ha ancora inserito nel Codice Penale i criteri stabiliti con il Patto di Strasburgo del ’99 sulla lotta alla corruzione pubblica; il riciclaggio, come emerge dalla relazione del 10 maggio della Vicepresidente Banca d’Italia, incide sempre più pesantemente sul PIL, sottraendone una fetta importantissima che potrebbe essere destinata alla collettività.

Luigi (“dammi del tu!”), ci tiene poi a ricordare alcune storie a lui particolarmente care, come quella di Roberto Antiochia, giovane poliziotto che sceglie volontariamente di sospendere le sue vacanze per scortare il commissario Cassarà. Verranno uccisi entrambi il 6 agosto 1985 con settantasette colpi di mitraglietta. Anni dopo Don Ciotti promette alla madre del ragazzo, Saveria Antiochia, ormai in punto di morte, di tenere vivo il ricordo del figlio, perché, come lei dice “Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te”. Le mafie spazzano via e quando non uccidono fisicamente, ti logorano l’anima lentamente:

“Non dimentichiamoci di tutti i morti vivi!” Tutti coloro i quali hanno perso ogni dignità, libertà e volontà di vivere con gioia la propria vita.

Don Ciotti è un fiume di parole che arricchiscono in profondità, non siamo ancora sazi, ma dalle quinte gli fanno cenno di affrettarsi perché ha un aereo da prendere che parte tra poco, lo stringiamo tra noi per cercare di prolungare la sua presenza: allora è davvero il NOI che vince, come voleva il giudice Chinnici.

La sua partenza ci lascia con un’urgenza dentro: il bisogno di moltiplicare il noi.

“Noi non scaviamo solo la terra dei beni, noi scaviamo le coscienze!”

Nel pomeriggio ci spostiamo sui campi di lavoro. Polvere, caldo e vento. Il nostro sguardo si è posato su edifici incompleti, fichi e limoni, rifiuti, e signore incuriosite che conversano dai balconi chiedendosi il motivo della nostra presenza. Non ci si aspetta, in genere, di trovare a pochi centimetri di profondità, in un piccolo orticello, sorpresine di ovetti di cioccolato, monete da pochi centesimi, sacchi dell’immondizia, confezioni di pacchetti di sigarette, e tubetti di dentifricio, ed anche un kit completo di pittura con tanto di pennarelli. Forse una bambina piccola fantasiosa, spendeva i suoi pomeriggi a trasformare il male che le veniva propinato in famiglia in sogni di cambiamento. In questa atmosfera, poi, riparati sotto la generosa chioma degli alberi, assaggiavamo i frutti offerti da questa terra generosa e contraddittoria.


Per ultimo, l’emozione nell’entrare nell’appartamento confiscato è stata veramente palpabile: respirare la stessa aria e guardare lo stesso panorama, oggi così placido e tranquillo è stato un forte stimolo ad essere collaboratori attivi al cambiamento.

…dalla “cassetta dei pensieri”del campo:

Se sono qui è perché ci credo, è ovvio. Credo che sia DOVERE di tutti battersi per la legalità e perché la vita di tutti sia libera da ogni forma d violenza. Non nego però che ho paura. Non per me, non per noi, ho paura in questa battaglia. Ho paura perché, come ha ricordato don Ciotti, oggi è lo Stato, non solo lo Stato, ma soprattutto lo Stato, che può combattere il fenomeno delle mafie. Perché andare a coltivare i campi, quando le leggi mancano, manifestare quando la politica non ti ascolta, ti lascia dei dubbi dentro. Continuerò a coltivare e a manifestare nel rispetto delle vittime e della legalità. Ammetto che non è semplice, al giorno d’oggi, per un giovane d’oggi, non essere inghiottiti dai peggiori sentimenti dei nostri giorni: il menefreghismo e lo scetticismo. Sono convinta che senza impegno e speranza nulla si muove e soprattutto la nostra esistenza perde molto del suo senso.

Ho ascoltato Don Ciotti molte volte, ma oggi durante le sue parole ho pensato soprattutto a lui, a chi era, cosa faceva, come spendeva la sua vita. Ho pensato ai ragazzi della sua scorta, ho pensato alle singole vite di cui parlavo.

Perché di pensare allo stato non ci riuscivo, perché pensare a un vero e proprio cambiamento della nostra epoca mi è estremamente difficile.

Sono convinta che uscirò cambiata da questa settimana, lo spero. Per ora, però, non nego che la paura che lo schifo, il potere, i soldi saranno sempre così orrendamente potenti in questa Italia, mi disarma.

Siamo in un Paese dove anche chi è buono, chi è pulito, ormai non si stupisce che gli immigrati vengano trattati come bestie, che si stia sporcando il nostro mondo, oltre che la nostra morale.

Il mondo è enorme, la vita è lunga (quanto può), il potere è un gigante potenzialmente utilissimo ma spesso in mano a persone “sbagliate”. Vorrei che la televisione e i giornali urlassero che la droga è per la gran parte in mano alle organizzazioni criminali mafiose, perché i ragazzi prendano coscienza oltre che del male che si fanno, di quello che provocano al Paese. Mi fermo qui.

Lavinia Rosi, Agnese Lo Giudice, Giulio Asta, Elia Rigamonti, Marino Ficco.