Cinque gennaio, Catania chiama Calabria

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Cinque gennaio, Catania chiama Calabria

di Federica Motta | 06/01/2011 |

Sei cronisti minacciati dalla ‘ndrangheta e il magistrato Nicola Gratteri hanno preso parte alle manifestazioni per Giuseppe Fava. Tra gli argomenti trattati anche le inchieste che hanno toccato Lombardo e Ciancio e il futuro della Procura di Catania
A sei cronisti calabresi il premio “Pippo Fava”


«Non c’è ragione perché il governo si assuma il merito dei successi investigativi contro la mafia. L’80% degli arresti fatti nel 2010 fanno parte di indagini e procedimenti iniziati 6 o 8 anni fa. Cosa c’entrano il ministro Maroni o il ministro Alfano? Raccontare le indagini di mafia in questo modo rappresenta un caso di cattiva informazione». A parlare è il dott. Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, da anni attivo nella lotta alla ‘ndrangheta, intervenuto il 5 gennaio al Centro Culturale Zo di Catania, in occasione del Premio Fava 2011.

Gratteri ha spiegato – con argomenti tecnici e non politici – perché ritiene sbagliato attribuire a un governo i successi delle indagini contro la criminalità. «Queste indagini durano anni. Spesso ci vuole un anno per scrivere un’informativa, un anno per scrivere la richiesta di custodia cautelare e un anno per arrrivare all’ordinanza. Alcune delle inchieste di cui oggi vediamo i risultati sono state avviate sotto il governo Prodi o sotto il precedente governo Berlusconi». Tempi lunghi, quelli della giustizia che si occupa di mafia, spesso trascurati da una informazione «abituata all’antimafia del giorno dopo la strage, alla politica dell’emergenza. Ma il vero problema è che non si investe seriamente nella lotta alla mafia». E a proposito di informazione, Gratteri delinea anche la tipologia di giornalista che preferirebbe trovarsi di fronte: «A me piacciono i giornalisti cattivi, quelli che fanno le domande scomode e, alle volte, ci mettono anche in difficoltà. Ma poi la sera tornano a casa e fanno ricerche, continuano ad analizzare carte e documenti. Non mi piacciono i giornalisti piacioni. Io non voglio maggiordomi». A 27 anni dalla morte di Pippo Fava, insomma, la ragioni del buon giornalismo non sembrano cambiate. Ma la libertà di fare informazione in terre come la Sicilia o la Calabria deve essere ancora faticosamente conquistata.


È per questo che il premio Fava quest’anno è andato a sei giovani giornalisti calabresi: Lucio Musolino, Giuseppe Baldessarro, Ferdinando Piccolo, Michele Albanese, Giuseppe Baglivo, Antonio Nastasi. Tutti vittime di intimidazioni mafiose: dalle semplici pacche sulle spalle in tribunale, ai messaggi durante i processi, alle ambasciate degli avvocati, fino ai proiettili nelle buste e alle bottiglie di benzina davanti a casa. «Un giornalista precario di 28 anni, legato alla sua terra, legato al concetto di giornalismo con la schiena dritta»: così Claudio Fava ha presentato Musolino, vittima di intimidazioni per aver pubblicato le informative dei Ros su stralci di conversazioni e intercettazioni sospette, che riguardavano alcuni esponenti mafiosi e in cui figurava anche il Presidente della Regione Calabria, Giuseppe Scopelliti. «Purtroppo il problema in Calabria, come in Sicilia, è uno: quali notizie dare e quali no. Noi paghiamo per aver reso pubblico il lavoro dei magistrati. Ma non c’è un altro modo per fare questo mestiere. Se dovessi cambiare modo di lavorare, piuttosto cambierei lavoro». Musolino, dopo essere stato querelato da Scopelliti e licenziato dal suo quotidiano, Calabria Ora, vive oggi nella condizione di giornalista precario. Un caso, il suo, sottolinea Fava, che rappresenta «una generazione di giornalisti, spesso giovani, che ha accolto dentro di sé il messaggio di Pippo Fava. Questi cronisti sono in pericolo perchè rischiano di diventare marginali agli occhi di tutti».

L’incontro pomeridiano del 5 gennaio è stato anche un’occasione per tirare le somme degli ultimi dodici mesi di cronaca catanese, a partire dall’inchiesta Iblis che ha portato a 47 richieste di custodia cautelare tra politici, amministratori e mafiosi, nella quale si parla anche del presidente della Regione Raffaele Lombardo e del fratello Angelo; per arrivare al fascicolo che vede indagato per concorso esterno in associazione mafiosa l’editore Mario Ciancio. A discuterne sono stati soprattutto due giornalisti di Repubblica, Alessandra Ziniti e Francesco Viviano. «Il sistema che ha denunciato e combattuto Pippo Fava è di una attualità che fa spavento – ha detto Viviano – il rapporto mafia-politica non si è ancora rotto anzi, in certe occasioni, si è rafforzato». Viviano ha anche sottolineato come «alla notizia dell’indagine per concorso in associazione mafiosa di Mario Ciancio, il più forte editore siciliano, ma anche un giornalista, né l’Ordine nè alcuna associazione sindacale si è mossa al riguardo. Questo la dice lunga su quante cose ancora non sono cambiate». Alessandra Ziniti, oltre che alla vicenda Lombardo, ha dedicato una battuta alla Procura di Catania, all’interno della quale sta per avvenire la successione al procuratore D’Agata: una corsa che vede favorito, secondo la cronista, Giovanni Tinebra. Molto pessimista il suo pronostico sul futuro assetto del Palazzo di Giustizia: «Temo che la successione alla procura finirà per garantire i poteri forti più ancora di quanto non sia finora avvenuto con l’attuale procuratore».