Riuscita la manifestazione contro la ‘ndrangheta

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Riuscita la manifestazione contro la ndrangheta

28 settembre 2010

By Redazione Malitalia

(di Francesca Viscone)

Reggio Calabria. Si sono inchinati davanti alla sede de il Quotidiano della Calabria, i partigiani dell’Anpi, intonando Bella Ciao e riconoscendo così in tutti i giornalisti minacciati il nuovo simbolo della Resistenza. La manifestazione No ’ndrangheta, organizzata dal giornale per esprimere solidarietà ai magistrati che rischiano la vita, ha visto scendere in piazza migliaia di persone. Oltre quarantamila, questa la cifra ufficiale. Che qui vuol dire davvero tanto. Non solo per la tortuosità delle strade (nella città dello stretto sono arrivati autobus persino dai dintorni del Pollino) e l’assenza di autostrada degna di tale nome, ma anche per la rassegnazione e il fatalismo diffuso che spinge sempre molti a credere che le mafie siano invincibili. Chi è venuto voleva soprattutto dire che cambiare è necessario, a cominciare dalle piccole cose. Così un gruppo di ragazzi, decisi a rispondere con un gesto concreto alle minacce di un loro insegnante, convinto che «la cultura mafiosa è la nostra cultura». Così i disabili, i papà con i loro neonati, le nonne con i nipoti, i dipendenti della sanità, le scuole con le rappresentanze ufficiali, i bambini con i palloncini, i familiari delle vittime che hanno aperto il corteo. I genitori di Dodo, dieci anni, ucciso per errore a Crotone, mentre giocava a calcetto, spiegano che partecipare è ormai l’unica cosa che dà un senso alla loro vita. La nonna di Francesco Inzitari, ucciso a 18 anni con 12 colpi di pistola. E Mario Congiusta, il papà di Gianluca, che spiega a un gruppetto di studenti che il governo non può fare a parole la lotta alla mafia e poi lasciare soli gli inquirenti e le forze dell’ordine, perché la lotta la fa sì la gente, ma deve farla anche e soprattutto lo stato.

I giovani di daSud non fanno sconti a nessuno e non hanno peli sulla lingua, con uno striscione chiaro: «La ’ndrangheta è viva e marcia insieme a noi… Purtroppo». Sono venuti con un caminciono rosso su cui cantano i Bandafalò, e invitano a “disinnescare” i mafiosi. Fortemente critici verso i politici, presenti ma confusi tra la folla, venuti sì, ma a titolo personale. Per la prima volta un corteo contro la ’ndrangheta si svincola dalle passerelle istituzionali. Chi fa politica, chi ricopre ruoli di potere all’interno delle istituzioni, deve dar conto alla gente dei suoi atti istituzionali, e per quello che farà lì sarà giudicato, non per aver avuto cinque minuti di visibilità rubandoli a chi non ha altro modo di far sentire la propria voce. Sul palco salgono solo i testimoni. Primo tra tutti il magistrato Salvatore Di Landro, che ha ricevuto le ultime minacce pochi giorni fa mentre era in ospedale a trovare il nipotino. Mentre dal palco le vittime e i testimoni raccontano le loro storie, a piazza Duomo continuano a confluire cittadini comuni e rappresentanti di tutti i movimenti, da Fiamma Tricolore fino al Prc e alla rete NoPonte, ignorandosi, tollerandosi. Diverse visioni della ’ndrangheta, diverse le idee su come combatterla. Opposte sono anche le vicende dei comuni che hanno sfilato.  

La sindaca di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, racconta come abbia resistito alle minacce e alle intimidazioni trasformando il suo comune in un modello di antimafia. Dalla parte opposta e, naturalmente assente, un’altra donna, la prima cittadina di Corigliano Calabro, Pasqualina Straface, a capo di una giunta di centro destra, indagata per concorso esterno in associazione mafiosa. Non mancano però i cittadini di Corigliano, con uno striscione che chiede lo scioglimento dell’amministrazione. Cataldo Perri, vicesindaco di Cariati, racconta invece un’altra storia di abuso, quella di un piccolo ospedale di provincia, che serve un bacino d’utenza di 70.000 persone e rappresenta un caso raro di buona gestione economica e di buona sanità, che la giunta Scopelliti ha deciso di chiudere. Il vero problema dice Perri «è la mancanza di sponsor politici». Perché quel territorio non ha rappresentanti eletti, in grado di tutelarlo o di far pesare il loro potere.
Le scuole ci sono, ma non sono state chiuse, come chiedevano i rappresentanti locali del centro destra, che bene farebbero invece a preoccuparsi di come mantenerle in piedi, pubbliche, forti e sicure. La ministra Gelmini ne ha autorizzato la chiusura il giorno prima della manifestazione (!)per garantire la partecipazione al corteo. Come dire, giocate alla rivoluzione, col permesso di mammà. Appello del resto non raccolto dal direttore regionale Francesco Mercuri. E del resto, come si facevano arrivare a Reggio migliaia di minori disorganizzati e appiedati? Nessuno aveva proposto iniziative in altre città, i ragazzi sarebbero rimasti a casa, o peggio, davanti alle scuole chiuse e sotto la pioggia. Scuole aperte dunque, almeno quelle che non sarebbero mai riuscite ad arrivare fin qui, dove si è a volte discusso, a volte fatto lezione.

A manifestazione passata, si registra da una parte l’euforia di chi ha partecipato e di chi ci ha creduto. Dall’altra arrivano sorprendenti raffiche di kalashnikov. In una regione con un altissimo numero di giornalisti minacciati, Carlo Parisi, segretario del Sindacato dei Giornalisti della Calabria, non trova di meglio che scrivere (www.giornalisticalabria.it): «Solidarietà, marce, manifestazioni e girotondi servono a poco. Costituiscono, sì, attestazioni di solidarietà e d’affetto ai destinatari delle minacce, ma finiscono per fare il gioco sia di chi vuole alimentare il clima di terrore e la cultura del sospetto, sia di chi costruisce le proprie fortune, economiche e professionali, grazie al professionismo dell’antimafia». L’arcivescovo di Cosenza, giornalista pubblicista iscritto al Sindacato dei giornalisti della Calabria ed all’Unione della stampa cattolica calabrese, dice di essere vicino a chi combatte la ’ndrangheta, ma condanna «la continua campagna di amplificazione di attentati ed intimidazioni» scrivendo: «A me non piace quando si ostentano, con comunicati stampa, con discorsi mediatici, alcuni atteggiamenti. Lavorare nel silenzio e in profondità, questa è la magistratura che io ammiro. Così le forze dell’ordine, impegnate a sradicare la malerba che rovina il bel giardino di questa nostra terra, di Cosenza, della sua provincia, della Calabria intera». Questo non è un invito a tacere, rivolto ai giornalisti e alla magistratura? Non è una sconfessione del lavoro di Di Landro e di tutti quei magistrati che hanno deciso di raccontarsi alla gente, perché l’opinione pubblica è più forte delle scarne misure di sicurezza che dovrebbero proteggerli?

La manifestazione è stata bella, colorata, riuscita. Ha protestato anche chi non ha partecipato, i commercianti rimasti con le saracinesche alzate, alcuni dei quali confessano la loro paura; i lavoratori della Multiservizi, che non precepiscono lo stipendio da mesi. È tutta qui la Calabria, con le sue contraddizioni e i suoi sogni, che non vuole più tendere le mani se non per accogliere chi è deciso a costruire un futuro diverso. Ma c’è anche l’altra Calabria, quella minoritaria che si dissocia dalla manifestazione perché ha paura della gente, quella che c’è solo dove si guadagna, quella che vuole controllare tutto, persino le coscienze. C’è anche quella dei camaleonti, dei più furbi e dei più lesti, che bisogna imparare a riconoscere e a isolare anche quando girano in giacca e cravatta, anche quando si camuffano tra la gente in lotta. Perché una delle caratteristiche della ’ndrangheta, lo sappiamo, è la sua capacità di infiltrarsi e penetrare ovunque. Per fare soldi, per intorbidire le acque, per squalificare e far perdere credibilità a chi la combatte. E i falsi moralisti, quelli che vorrebbero contaminare i ragazzi sostenendo che tutti siamo mafiosi, perché siamo calabresi, perché siamo italiani, perché tutti abbiamo condonato qualcosa: «chi un palazzo, chi un omicidio». Per dirla con i bambini, la ’ndrangheta gioca a’mmucciateda. La ’ndrangheta gioca a nascondino. Ma chi fa tana, libera tutti.

(pubblicato su www.strozzatecitutti.info)