A tu per tu con il pm della Dda Antonio De Bernardo

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A tu per tu con il pm della DDA Antonio De Bernardo

di Noemi Azzurra Barbuto

Sono i sostituti procuratori della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA), istituita presso la Procura della Repubblica del tribunale di ventisei capoluoghi di distretto di Corte d’appello, i quali, in tutta Italia, si impegnano quotidianamente nella lotta alla criminalità organizzata.

Ecco cosa significa davvero “dedicare la propria vita al lavoro”: non si tratta soltanto delle numerose ore, sia diurne che notturne, trascorse ad indagare, ad interrogare, a studiare, a ricostruire ogni parola, ogni gesto, ogni fatto, in cerca della verità; ma anche e soprattutto della perdita, volontaria ma non per questo meno sofferta, di tante piccole libertà che noi diamo per scontate e che, in effetti, tali dovrebbero essere anche per coloro che stanno sul fronte della legalità.

In un mondo perfetto chi sbaglia calpestando i diritti degli altri dovrebbe nascondersi e temere; ma questo mondo è terribilmente imperfetto e pieno di assurde contraddizioni, così succede che uomini onesti debbano rinunciare a parte della propria libertà personale proprio in nome della Libertà e della Giustizia, per costruire una società migliore in cui vivere tutti alla luce del sole.

Ma cosa c’è dietro questa scelta? Per comprenderlo abbia rivolto alcune domande ad un sostituto procuratore antimafia della DDA di Reggio Calabria, il Dott. Antonio De Bernardo. Sul suo viso scorgiamo un senso di forza consapevole, una calma sicura che sembra derivare dalla coscienza, ormai fin troppo chiara, della realtà del mondo in cui viviamo; ma non è rassegnazione, piuttosto è volontà di non lasciarsi scivolare giù, mentre tutto il resto scivola.

Cosa ne pensa del rapporto tra mafia e politica?
“La politica è la sede in cui la collettività prende le sue decisioni più importanti, soprattutto in settori cruciali dell’economia, e, quindi, è inevitabile che un’entità parassitaria come la mafia tenti di inserirsi nei processi decisionali; d’altra parte, la mafia è in grado di controllare consistenti pacchetti di voti e questo crea, in alcuni casi, una sorta di simbiosi molto pericolosa con parte delle istituzioni. Il rapporto andrebbe scardinato, ma questo compito non spetta soltanto alla magistratura”.

Gli avvenimenti degli anni di fuoco della lotta alla mafia, ‘92-’93, l’hanno toccata in qualche modo?
“Nessun cittadino e nessun magistrato potrà mai dirsi non toccato da quelle vicende, che hanno determinato in me la spinta propulsiva verso la mia scelta professionale”.

Quali pensieri e quali sensazioni suscitò in Lei l’assassinio di Giovanni Falcone?
“Suscitò in me sentimenti di rabbia e di profonda tristezza, insieme alla convinzione che da quel punto bisognasse necessariamente iniziare a reagire seguendo il suo esempio”.

La mafia dovrebbe essere combattuta agendo su più fronti: istituzionale, culturale, politico, sociale. Secondo Lei, in cosa dovrebbeconsistere l’impegno da parte dei giovani?
I giovani devono riavvicinarsi al valore della legalità, anzi devono proprio riscoprirlo come valore, perché oggi c’è la tendenza a considerare il rispetto della legalità come una limitazione della libertà, invece è l’unica strada per raggiungerla davvero.

“Mi viene in mente una frase di Rousseau, “Avrei voluto vivere e morire libero, cioè tanto sottomesso alle leggi che né io né alcuno avesse potuto sentirne il giogo onorevole, giogo salutare e dolce, che le teste più orgogliose sopportano tanto più docilmente quanto più sono fatte per non portarne nessun altro”.

Giovanni Falcone diceva a proposito di se stesso: “Non sono Robin Hood né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium”. Lei si ritrova in questa definizione?
“Sicuramente sì, anche se a volte le condizioni sono talmente difficili che il magistrato può sentirsi o apparire davvero come Robin Hood, o come un kamikaze, o come un trappista. Quando questo accade, vuol dire che c’è nel sistema qualcosa di patologico che deve essere corretto”.

La mafia deve essere combattuta ancora nel territorio in cui è nata, nonostante abbia assunto caratteristiche transnazionali?
“Sicuramente è innegabile il suo carattere transnazionale, un aspetto su cui forse si è concentrata in ritardo l’attenzione degli operatori, tuttavia è sempre nelle sfortunate terre del meridione d’Italia che le cosche prendono le loro decisioni, hanno i loro vertici e la loro forza. Quindi l’azione repressiva non può prescindere da un costante monitoraggio dell’attività dei sodalizi criminosi nei territori di origine”.

Quanto il Suo lavoro condiziona la Sua vita privata?
“Condiziona molto la mia vita privata, innanzitutto per la mole di lavoro e anche per i profili relativi alla sicurezza. Ma sono limitazioni che si mette in conto di dovere accettare nel momento stesso in cui si decide di occuparsi di antimafia”.

Giovanni Falcone disse: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. Secondo Lei, egli fu ucciso dalla mafia o lo uccise piuttosto l’essere stato lasciato da solo a combattere una battaglia troppo grande per un solo uomo, quindi il non essere stato supportato adeguatamente dallo Stato? E’ questa la solitudine a cui è condannato l’eroe che diventa scomodo per la sua grandezza?
“Giovanni Falcone è stato ucciso dalla mafia. E’ indubbio che la magistratura in prima linea nella lotta alla mafia deve sempre poter contare – pur nella normalissima dialettica istituzionale -, sul costante e visibile appoggio della società civile e di tutte le istituzioni, appoggio senza il quale l’azione repressiva risulta senz’altro indebolita, e l’esposizione dei singoli magistrati più evidente”.

Cosa è cambiato da allora?
“Le morti di Falcone e di Borsellino hanno sortito l’effetto di sensibilizzare molto l’opinione pubblica riguardo ai temi della lotta alla mafia, effetto che a distanza di anni forse si va esaurendo purtroppo in larghi settori della società civile”.

Lei ha paura?
“No. Mai”.

Rafforzare la presenza dello Stato può costituire un mezzo per sconfiggere la mafia, abbattendo la convinzione, antica e radicata nella gente del sud, che lo Stato sia lontano e assente dal Mezzoggiorno d’Italia?
“Lo Stato in tutto il Mezzogiorno d’Italia ha il dovere di essere e di apparire credibile, di offrire alternative concrete ai giovani, di creare opportunità di sviluppo in maniera legale e trasparente. Senza tutto questo l’idea di una reale lotta alla mafia è assolutamente velleitaria”.

Che cos’è l’omertà?
“La rinuncia alla propria dignità imposta dalla paura”.

Che cos’è il senso di appartenenza?
“Qualcosa di cui tutti, soprattutto i giovani, hanno un estremo bisogno. Se le istituzioni, la cultura, la politica, la scuola e la società civile rinunciano ad esercitare la propria funzione e lasciano questo terreno alle organizzazioni criminali, la lotta alla mafia è senza speranza. I giovani hanno bisogno di modelli identificativi, e purtroppo, in alcune realtà, trovano solo quelli offerti dalle organizzazioni criminali”.

E l’onore?
“L’onore è l’idea che ciascuno ha di sé in relazione ad un sistema di valori. Se il sistema di valori non è condiviso, l’onore finisce con l’essere solo un malinteso”.

La mafia è un’organizzazione in crisi?
“Non direi che sia in crisi. Essa è in continua evoluzione, e nessuno può prevedere quali potranno essere le sue forme di adattamento alle novità proposte dal progresso sociale e tecnologico. Ma, come disse Falcone, probabilmente essa è un fenomeno umano che come tale ha un inizio e anche una fine”.

Qual è la Sua preoccupazione oggi?
“La mia preoccupazione è poter continuare a svolgere le funzioni inquirenti con strumenti sufficientemente adeguati alla complessità del fenomeno che si intende contrastare”.

Cosa consiglia ai giovani che leggeranno questa intervista?
“Ai giovani consiglio di non perdere mai la speranza. Il loro futuro se lo costruiscano loro, perché non devono aspettare nessuno. E consiglio anche di non delegare mai ad altri le proprie scelte”.

Cosa direbbe a Giovanni Falcone se fossi qui adesso?
“Gli chiederei di mettere ancora a disposizione le sue capacità, ma non ce ne sarebbe bisogno, so che lo farebbe. Inoltre, gli chiederei dei consigli”.

Qual è il Suo primo pensiero al mattino?
“Che le persone a me care stiano bene”.

E l’ultimo alla sera?
“Lo stesso”.

Le capita mai di mettere in dubbio le Sue certezze riguardo ad un caso su cui ha lavorato e di accorgersi che forse ha commesso un errore?
“Nel processo il dubbio è un elemento fondamentale. E’ uno strumento di lavoro. Attraverso la continua soluzione dei dubbi ci si avvicina alla verità”.

Esiste la Giustizia?
“Kelsen diceva che il singolo non può raggiungere mai la felicità individuale perché l’unica felicità possibile è quella collettiva. La felicità sociale si chiama “giustizia”, che non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che bisogna costruire giorno per giorno. Questa tensione verso la giustiza caratterizza tutta la vicenda umana, senza questa idea di giustizia non può esistere la libertà, non può esistere la felicità, non può esistere il progresso”.

Si sente mai solo?
“Molto spesso. In fondo, lo siamo tutti quanti. Però, l’idea che al mondo ci siano tante persone oneste che perseguono le mie stesse finalità mi fa sentire meglio”.

Alla fine di questa intervista a noi sembra di capire soprattutto una cosa: coloro che ci sembrano limitati nella loro libertà, proprio a causa di una scelta professionale che inevitabilmente comporta delle attenzioni maggiori verso i propri gesti, verso le proprie parole e le proprie più banali decisioni quotidiane, sono forse gli uomini più liberi al mondo; perché, se da un lato, è vero che spesso devono girare sotto tutela, dall’altro, essi possono guardare a testa alta la luce del sole e non temere mai che quella luce ne riveli anche le ombre.

Forse dietro questa scelta c’è tanta rabbia, rabbia verso un mondo che non ha soddisfatto le nostre aspettative ideali, e più questi valori erano sentiti più forte essa sarà; ma anche tanta passione.

Sì, è una scelta d’amore fare il pubblico ministero.

Fonte: blog di Noemi Azzurra Barbuto

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