BASTA COL PATROCINIO GRATUITO IL BOSS COSTA SI PAGHI IL LEGALE

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«Basta col gratuito patrocinio»

Processo Congiusta., il pm: «II boss Tommaso Costa si paghi il legale»


                                                                 


 La revoca del gratuito patrocinio per uno degli imputati nel processo per l'omicidio di Gianluca Congiusta è stata chiesta nel corso del processo dinanzi alla Corte D'Assise di Locri. La richiesta, la prima in provincia di Reggio Calabria, è stata avanzata dal pubbli­co ministero, Antonio De Bernardo, nei con­fronti di Tommaso Costa, ritenuto il boss del­l'omonima cosca e l'organizzatore del delitto. La revoca del gratuito patrocinio per le per­sone già condannate per mafia o traffico di stupefacenti è prevista nel decreto sulla sicu­rezza approvato nel luglio scorso. Sulla richie­sta del pubblico ministero i giudici della Cor­te D'Assise decideranno alla prossima udienza.

A don Masino Costa, il padrino che un tem­po contese la leadership di Siderno ai Commisso, colui che secondo l'antimafia di Reg­gio Calabria uccise Gianluca Congiusta, non aveva proprio fatto piacere sapere della rela­zione tra sua cugina e un ragazzo sempre gon­fio di alcol e droga. Come non era affatto con­tento di come andavano gli affari del clan di cui era a capo. Nel corso del breve colloquio del cinque dicembre 2003, lo disse anche al­la sua lady, Adriana Muià, che era andata a trovarlo nel carcere di Palmi. Quel dialogo re­gistrato dagli inquirenti ieri è stato ripercor­so in aula ieri da Giacomo Mazzoleni, il tenen­te dei carabinieri di Soverato chiamato a deporre nel processo ai presunti assassini di Gianluca Congiusta. «Costa si lamentava. Disse alla Muià a cosa fossero serviti i traffi­ci illeciti se poi non era stato ancora capace di dar da mangiare alla sua famiglia».
A Tom­maso Costa e al suo guardaspalle, Giuseppe Curciarello, i carabinieri di Soverato ci arri­vano seguendo lo spacciatore Bayan Kaled e la pista della droga. Da allora i due non furo­no mollati un attimo. Gli inquirenti li spiarono nei loro movimenti in carcere, durante le ore di colloquio coi familiari. Sbirciarono an­che tra le lettere che si scrivevano.
Come accadde con la missiva del 28 gennaio 2004. Quel giorno Costa scrisse a Giuseppe Curcia­rello, il galeotto prossimo a lasciare la galera. «Per quello che ti dovevo chiedere e che nel breve tempo possibile deve scomparire la vol­pe visto che ha fatto stragi di galli. E' un fat­to di assoluta urgenza e riservatezza. Se uscivo io era mio dovere, ma siccome non si sa quanto tempo ci vuole io ho questa urgenza. Lo so quello che ti sto chiedendo, ma io sono un uomo fino all'ultimo respiro e tu che sei mio fratello non puoi dirmi di no».
Un pas­saggio su cui il pubblico ministero si è volu­to soffermare. L'accusa sostiene infarti che si tratti di un messagio di morte in codice, che «la volpe» che Curciarello doveva far «scom­parire» fosse Gianluca Congiusta.Giuseppe Curciarello era davvero come «un fratello» per Tommaso Costa. Tanto che prima di uscire dal carcere ebbe dal suo capo il decalogo che i «più grandi uomini della Ca­labria» avevano seguito alla lettera. In un ita­liano sgrammaticato, il boss gli scrisse:
«Quando parli parla piano e coinciso senza gesticolare o farti prendere dall'euforia. Non far capire mai quello che hai in testa anzi fai parlare loro e non tu.Quando vengono a casa tua non riceverli subito, anche se sei in casa, fargli dire di tor­nare più tardi in quanto sei uscito con perso­ne forestiere e che non sanno chi. A volte non farti vedere in giro per giorni e non far sape­re a nessuno dove sei anche se sei in salotto a casa tua. Hai capito perché ti dico questo? Per creare attorno a te il mistero. Queste sono tat­tiche che hanno usato i più grandi uomini del­la Calabria». 
Ilario Filippone per Calabria Ora