Niente sacramenti ai divorziati-.Ai capimafia si

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Niente sacramenti ai divorziati- Ai capimafia sì

 di DOMENICO IELASI*


 HO letto con molto interesse (anche professionale) alcuni recenti  articoli sulla tematica del perdono che il Giudice Supremo, tramite i  ministri del culto cattolico, elargirebbe in modo indiscriminato anche a quanti per sistema di vita infrangono le leggi dello Stato, oltre quelle  divine, al pari di quella pioggia che, come ricordava S. Agostino, cade  
 ugualmente sui buoni e sui cattivi.

Superando l’iniziale perplessità dovuta alla  notevole delicatezza del problema, che ha fatto scorrere fiu d’inchiostro
 e acceso dibattiti nel campo della teologia, del diritto, della letteratura  (basti ricordare solo I promessi sposi,Delitto e castigo, I  miserabili, .), mi sono indotto anch’io ad esternare alcune riflessioni.

Proprio la  lettura delle diverse posizioni sul delicato argomento mi ha fatto  riaffiorare alla mente, fra i tanti ricordi risalenti al periodo in cui svolgevo la  funzione di giudice istruttore presso il Tribunale di Locri, l’immagine di due
 anziani genitori e di una giovane vedova, che, alla vista dei resti  dentro a un sacco del loro rispettivo figlio e marito rinvenuti dopo  diversi mesi in un dirupo dell’Aspromonte, reclamavano giustizia, con insistenza  e con
 inaspettata speranza (anche la vittima era vicina all’ambiente del  crimine la sentenza di condanna degli imputati confermata in appello è stata, infine, annullata dalla Cassazione).

Ma soprattutto, più dei casi giudiziari conclusi con sentenze (di condanna o di assoluzione),  tornano alla memoria i tanti fascicoli processuali per omicidi e sequestri di  persona, archiviati ad opera di ignoti.

Ricordo che anche la Curia  di Locri all’inizio degli anni ’90 pubblicò un opuscolo contenente un lungo  elenco
 di quei gravissimi reati rimasti impuniti. Sono ricordi che mi   inducono a riflettere sempre più sull’inadeguatezza della giustizia terrena  (non solo e non tanto di quella praticata nelle aule dei tribunali), che  spinge tutti noi, miseri mortali, a trovare rifugio e ristoro nella Giustizia   divina.
 Neppure di quest’ultima, però, a ben pensarci, potremmo avere piena  contezza, dal momento che, rimanendo solo nell’ambito giudaico- cristiano, e per non dire delle altre religioni, siamo passati dal Dio degli  eserciti e
 della vendetta al Dio di misericordia e del perdono. Che, poi, in  attesa del giudizio universale, una sentenza pure la emette, magari provvisoriamente esecutiva, se è vero che viene dato a ciascuno il   suo con la collocazione delle anime nelle diverse sfere, percorse dal genio  dantesco, e che sembrano destinate all’oblio del fiume Lete in quant retaggio medievale. Forse in questa ottica alcuni intellettuali  considerano tale anche la carcerazione preventiva e ogni tanto ne propugnano l’abolizione. Molto tempo è trascorso da quando anche la giustizia   terrena pronunciava le sentenze “in nome di Dio” e a tutti dovrebbe essere  ormai chiaro che essa appartiene a una dimensione non commensurabile con   quella divina, in quanto si sviluppa su un piano limitato e imperfetto, non possiede dogmi, né ha la sfera di cristallo o la cartina di   tornasole che le consentano di stabilire con assoluta certezza se la realtà   storica è stata correttamente filtrata dalla realtà processuale.

Per questo  motivo, può essere pericoloso e fuorviante applicare alla giustizia terrena parametri e moniti evangelici di natura essenzialmente spirituale ed esoterica. Altrimenti, come spiegare non tanto il monito del “non   giudicare
 per non essere giudicati” e nemmeno l’episodio dell’adultera   sottratta da Gesù al linciaggio di una folla inferocita (monito ed episodio che,  come tanti altri narrati dai Vangeli, invitano a una particolare cautela   nei giudizi di valore per la precarietà della condizione umana, altrimenti anche oggi sarebbero un incitamento all’anarchia o, al meglio, un   invito ad atteggiamenti di disimpegno “pilatesco”!), ma la promessa di   paradiso fatta dal Messia a uno dei due ladroni che lo implorava prima di spirare   sulla croce. Ma il Messia, si sa, tutto poteva in quanto figlio di Dio.  
 Peraltro, secondo una tesi poco conosciuta, anche Ponzio Pilato sarebbe   incorso in errore (giudiziario?!), in quanto, nel sollecitare alla folla la   scelta di un detenuto da liberare (per la ricorrenza della Pasqua), lo avrebbe individuato in “Barabba”, arrestato per sedizione ed omicidio,  ritenuto aderente al movimento terroristico antiromano degli zeloti, anziché   in “Bar Abba”, che in ebraico significa appunto “Figlio del Padre”. Per la  teologia
 cristiana, invece, l’indicazione della folla è coincisa, per un   misterioso intreccio, col piano salvifico del Padre, al pari del tradimento di   Giuda e della successiva sottoposizione di Gesù – l’Unto del Signore – al  processo religioso davanti al Sinedrio dei sommi sacerdoti (per violazione del rigido monoteismo) e all’altro, laico, davanti al procuratore di  Roma (per il reato di lesa maestà, in quanto, avallando o non smentendo il convincimento della Sua natura divina, si poneva in contrasto con la divinità dell’Imperatore). Processi che hanno suggerito a S. Paolo l profonda considerazione nella Lettera ai Galati: «Non rendo vana la  grazia di Dio; se infatti la giustizia proviene dalla legge, allora Cristo   è morto per nulla»!

Ma è, anche questo, un altro problema di coscienza del   giudice
di oggi, che, a differenza di Ponzio Pilato, è tenuto ad applicare il diritto positivo e rispettare il principio della “dura lex, sed lex”!

Tornando alla problematica del perdono – che altrimenti si  rischierebbe di avventurarsi in sentieri ancora più impervi -, è noto che importante finalità della missione della Chiesa cattolica (appunto,   universale) è il recupero dell’uomo nella sua totalità mediante la diffusione della   Parola del Messia, che più volte ha fatto ricorso alle parabole del buon   pastore che deve recuperare le pecorelle smarrite, tante altre volte ha   invitato a perdonare sempre e senza condizioni (“77 volte 7”). Proprio in tale messaggio evangelico potrebbe essersi radicato un equivoco di   fondo, che rischia di rafforzare la speranza – peggio, il convincimento – che un presunto pentimento, dichiarato pure in extremis, possa far guadagnare assoluzione e indulgenza a mafiosi e non, assassini sequestratori, trafficanti di droga, peculatori di Stato e quant’altro di grave è contemplato dai codici penali. Asso-luzioni e indulgenze che   dovrebbero essere riservate esclusivamente alla misteriosa giustizia divina,   lasciando che siano soltanto le vittime dei reati a scegliere se perdonare o   meno per il torto subito.

E altrettanto delicata può rivelarsi l’eccessiva enfatizzazione dell’astratta possibilità salvifica tratta da  episodi che
restano pur sempre eccezionali, perché “uno su mille ce la fa”.  Intenso torna anche il ricordo dell’espressione disperata e al tempo stesso imperiosa della vedova Schifani durante i funerali per la strage di  Capaci: «Io vi perdono, ma dovete inginocchiarvi» e, un po’ fuori   microfono, “. ma loro non cambiano, non cambiano !!”

Molto più proficuo  risulterebbe per tutti, soprattutto nelle zone inquinate dalle consorterie   criminali, se la Chiesa di Pietro – dotata di maggior carisma, che pure ha subito e   continua a subire torture e persecuzioni in tante parti del pianeta fino al sacrificio estremo dei suoi sacerdoti più coraggiosi – sancisse la scomunica e l’esclusione dai sacramenti per chi, mafioso e non, ha   violato il diritto alla vita e alla libertà, e dichiarasse chiaro e forte   che perottenere un possibile perdono (inteso solo in senso liturgico, come riammissione ai Sacramenti da parte di un ministro del culto) è   necessaria la prova di un percorso prolungato di recupero, reso manifesto con  atti significativi e tangibili, magari senza per questo far guadagnare  un posto in Basilica, che giustificherebbe il dubbio che “pecunia non olet”

Personalmente, non condivido l’opinione che tutti sono uguali di   fronte alla fede. D’altronde, è noto che per lungo tempo sono stati negati i funerali ai suicidi e tuttora sono esclusi dai sacramenti i   divorziati. Perché non fare altrettanto con capimafia e gregari, ai quali non   vengono nemmeno riservate espressioni di biasimo durante le esequie, mentre in qualche caso, anche per gretti motivi, non vengono risparmiati giudizi negativi a fedeli timorati di Dio che hanno vissuto sempre  rettamente. E, ancora, con tutto il rispetto per il fenomeno della religiosità   popolare, non sembra che finora molto sia stato fatto per eliminare quelle   arcaiche incrostazioni di sacro e profano, che hanno alimentato prepotenze,aspettative e protezioni a tutti i livelli, oltre a incentivare il  ricorso– quanto alla religione (ma non solo) – all’invocazione di grazie  di ogni tipo, fino all’elezione di questo o quel santo a patrono e   protettore, non esclusa la Madre Santissima, da parte delle varie consorterie  criminali (si chiamino mafia, ‘ndrangheta o altro, ma comunque associazioni per delinquere), con annesse riunioni nei pressi di luoghi sacri, come   accaduto nella zona di Polsi, secondo quanto definitivamente acclarato nelle   aule di giustizia. E proprio la storia giudiziaria degli ultimi decenni  dovrebbe far capire, soprattutto nell’attuale periodo di espansione delle   metastasi mafiose anche nei gangli dell’economia, quanto sia pericoloso   sostenere che le porte del Tempio devono rimanere aperte a tutti   indiscriminatamente, di quel Tempio da cui proprio il Cristo aveva con veemenza scacciato i mercanti.
 *magistrato