Quel dissidio interno vecchio quanto bugiardo: brigante o emigrante?

Print Friendly, PDF & Email

Quel dissidio interno vecchio quanto bugiardo: brigante o emigrante?

di Giulia Pensabene – Guardo fuori dal finestrino, la macchina va. Si parte per andare a trovare Mimmo Lucano, sindaco di Riace. Mi piace l’idea di mettermi in viaggio, sempre. Maledetta anima viaggiatrice, a volte vorrei poter dire che non è così (forse sarebbe tutto più semplice). Da un lato il mare, lo stretto e, un po’ più in la, la Sicilia. Dall’altro lato le colline, l’agave che domina il paesaggio, le stradine che dal mare salgono fino alle montagne.  In mezzo, la Salerno – Reggio Calabria.

Succede sempre cosi, in Calabria. Ci si sente stretti fra la bellezza di questa terra, la voglia di restare, l’urgenza di cambiare le cose … ci si sente schiacciati dal richiamo di quell’imperativo: non devi arrenderti. Quasi fosse un comandamento, quasi fossimo nati con l’obbligo di . E poi la voglia di partire, di lasciare tutto, di scoprire cos’altro c’è lì, al di là dell’altopiano silano. Ed in mezzo quella Salerno – Reggio Calabria, emblema di una terra che chiede di non essere abbandonata.  Abbandonata al saccheggio delle sue risorse, abbandonata alla dittatura politico – mafiosa che porta con sé il peso della responsabilità del disastro economico – ecologico – sociale in cui versa oggi la regione , abbandonata a chi ha trasformato il diritto in favore, abbandonata a chi si è già arreso, a chi non è più libero o forse è nato già prigioniero, a chi non ce la fa e muore strangolato dal cappio della logica di sopraffazione , a chi accetta tutto cosi com’è  perché “è così, non cambierà”, a chi permette all’indifferenza di operare potentemente nella storia.

È difficile spiegare il dissidio interno che proviene da quella domanda: brigante o emigrante?  Chi può capire? Riuscireste ad immaginare che cosa significhi dire addio alla propria famiglia, ai propri amici? Partire verso un posto straniero, senza conoscerne nulla, e con pochissimi soldi, con pochissime certezze, forse nessuna? Chi sarebbe disposto a fare una cosa del genere?
A volte credo anch’io che quella di un calabrese sia una vita alla quale occorre “essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla”, come scriveva Corrado Alvaro, nel suo “Gente in Aspromonte”.
La macchina arriva a Riace. Mi viene un po’ da ridere: penso a tutte le volte che, quando studiavo a Milano, mi chiamavano Giulia la “calafricana”(io in realtà l’ho sempre accolto come un complimento).Avevano ragione: qui a Riace, è proprio calafrica. È la storia di una grande speranza. Come quella  di Caulonia e Stignano,piccoli comuni calabresi dove gli immigrati sono diventati una vera e propria risorsa. È l’esempio bellissimo di una comunità che ha accolto i rifugiati sbarcati sulle nostre coste per la prima volta ormai più di 10 anni fa, e ha offerto loro semplicemente un posto dove stare, trasformando le case abbandonate in officine di pratica della fratellanza, verso forme più alte di produzione e di convivenza.  È la testimonianza che la politica, quella con la P maiuscola, esiste ancora. Quella che si fa carico della sofferenza degli ultimi, prima di tutti, prima di tutto. Penso a Mimmo,  penso alle storie degli africani sbarcati sulle nostre coste, a quelle dei curdi, dei pakistani. Penso a quella Calabria che tutti considerano “fuori dal mondo”, e invece ne è un punto nevralgico. Terra d’incontro tra chi arriva da altri mari, e chi decide di partire. Una terra che ospita città considerate periferie del mondo, eppur fondamentali crocevia internazionali per i traffici illeciti, insediamenti della  principale mafia italiana. Terra di ‘ndrangheta quindi, organizzazione locale e familistica, ma capace di diffondere i suoi tentacoli anche al di là dell’oceano. Il famoso sviluppo glocale (loro si, che ci sono riusciti). E allora io mi sento dentro al mondo anche quando cammino per le  stradine di Riace.
Penso a chi vorrebbe partire, ma deve restare. Penso a chi vorrebbe restare , ma deve partire.
Credo sia il furto peggiore, quello di chi ti ruba  la libertà di scegliere. Qualcuno l’ha definita una “santa rabbia”. È quello che provo. Sì, io sono arrabbiata: quando prendo l’aereo per Milano, e mi capita di incontrare sullo stesso volo sei miei compagni di classe, e penso alle circa 700mila persone  che, solo tra il 1997 e il 2008, risultano aver abbandonato il Mezzogiorno. Via, tutti via. Via quelli  che partono alla disperata ricerca di un lavoro, via i così detti laureati «eccellenti» (nel 2004 partiva il 25 per cento dei laureati meridionali con il massimo dei voti; cinque anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38 per cento). Sono arrabbiata quando sento l’inconciliabilità di studiare relazioni internazionali, e vivere a Sud;  quando vedo il mio paese ripopolarsi solo nei periodi di Pasqua, in estate e a Natale; quando non ho la possibilità di abbracciare una persona cara in un momento difficile,maledette distanze; quando mi sento suddita e non cittadina; per le persone a cui lo leggi negli occhi, l’amore per la Calabria; per tutti quelli che scelgono di lottare e vengono ridicolizzati, accusati di velleitarismo, considerati meri utopisti;per tutte le  volte che il “cono d’ombra”informativo che avvolge la mia terra le strappa via tutte le sue bellezze, oscurandole; perché lo pretendo, il mio diritto di scegliere dove stare. Potrei anche decidere di rimanere lontano, di non tornare più. Ma vorrei essere io a poterlo fare, nessun altro per me.
E invece è la precarietà che ci rende schiavi dell’incertezza del domani,a fare da ago nella bilancia delle decisioni.
Partire o restare? Rinunciare a un sogno o inseguirlo? Lottare o rassegnarsi all’immobilità delle cose? Credere che sia tutto irrimediabilmente cosi, o sfidare la rassegnazione?
Mi chiedo anche quanto sia giusto, dover rinunciare a un futuro “migliore” per “salvare” la tua terra, se le due cose non coincidono.
A volte ho paura della solitudine e dell’indifferenza di chi non riesce a capire e si lascia andare a facili (pre)giudizi. Ho paura che il Nord si sposti sempre più a Nord. Eppure, fortunatamente, rientro a casa con quella voglia di riscatto, ancora. Con la consapevolezza che non voglio andarmene. Perché ogni volta che parto sento che c’è qualcosa che vorrei partisse  insieme a me. Mi aggrappo alle realtà come quella di Riace. Perché in questa Calabria che brucia c’è anche il Sud che ho visto reagire, il Sud che resiste anche con la forza che non ha. Il Sud che ha dei volti: quelli di  Mimmo Lucano, Gianluca Congiusta, Peppe Valarioti, Lea Garofalo,Giannino Losardo,  Rocco Gatto,  Ciccio Vinci e tanti altri; che ha delle storie: quelle di tutti i migranti, quelli che arrivano e quelli che partono, quelli per cui  restare a volte è rinunciare, altre invece significa dare un Senso profondo alla nostra vita.

Mi ricordo la prefazione del Professore Tonino Perna, nel bellissimo libro di Chiara Sasso,  “Trasite, favorite”: “questa terra di Calabria, come nessun altra, è una terra di utopie”. E quella di Riace, insieme con le altre, è un ‘ utopia diversa, perché è un’ utopia concreta. E allora consideratemi pure una tra quei meri utopisti, però almeno una cosa non me la togliete: lasciatemi i miei sogni (perché si possono realizzare, e Riace ne è la prova). Non rubate terreno a quella voglia di riscatto.