Il Governo Berlusconi e la lotta alle mafie

Print Friendly, PDF & Email

Il governo Berlusconi e la lotta alle mafie

L’ANALISI

Intercettazioni e “scudo” Governo schizofrenico nell’affrontare le mafie

L’efficacia dei provvedimenti adottati e i dubbi su quelli futuri

 

 

 

 

 

DI VINCENZO MACRÌ

Se si volesse tentare una prima valutazione di un anno di attività legislativa del governo Berlusconi sotto il limitato, seppure importante, aspetto della normativa antimafia, il compito sarebbe meno facile di quanto si possa pensare.

Da una parte, infatti, i ministri della Giustizia e dell’Interno annunciano di avere ottenuto, su questo terreno, risultati di gran lunga superiori a quelli dei loro predecessori dello schieramento opposto, nonostante fossero questi a presentarsi come paladini dell’antimafia, dall’altra influiscono pesantemente pregiudizi e sospetti circa la effettiva volontà dell’attuale governo di volere contrastare il fenomeno mafioso, ritenuto componente non trascurabile del suo largo successo elettorale, soprattutto in Sicilia. Sarà bene, quindi, rinunciare a giudizi superficiali e passare all’esame dei provvedimenti adottati con leggi, a quelli in corso di approvazione davanti al Parlamento, a quelli ancora in preparazione, senza rinunciare neppure a “leggere i segnali” provenienti dalla maggioranza circa gli obiettivi reali dell’azione di governo in tema di contrasto alla criminalità organizzata.

Occorre dire in apertura che il viatico migliore all’attività del nuovo governo era stato offerto dal precedente governo Prodi, caratterizzato infelicemente in questa materia, dalla legge sull’indulto, con un impatto sull’opinione pubblica devastante quanto a immagine e credibilità.

Dopo qualche mese dal successo elettorale dell’aprile 2008, veniva approvato il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, denominato pacchetto sicurezza, poi convertito in Legge 24 luglio 2008, n. 125, che conteneva una serie non trascurabile di norme che avevano quale specifico oggetto la criminalità organizzata di tipo mafioso, anche se predominava nella legge l’aspetto repressivo nei confronti dell’immigrazione clandestina.

Procedendo per estrema sintesi, si può ricordare la modifica dell’art. 416 bis del codice penale, già dalla rubrica, comprensiva ora delle “mafie anche straniere” (dizione che sarà ripetuta nella legge istitutiva della nuova Commissione parlamentare antimafia), per passare poi alla misura delle pene edittali, pesantemente inasprite, sia per le ipotesi di partecipazione semplice, sia per quelle aggravate, tanto da portare al raddoppio delle pene previste nella versione originaria della norma, risalente al settembre del 1982, già modificata più volte nel corso degli anni.

Con riguardo al codice di procedura penale, si segnala la abrogazione del cosiddetto patteggiamento in appello (art. 599, commi 4 e 5 c.p.p.), che tante polemiche aveva suscitato tra gli operatori giudiziari. In sostanza, con la disciplina abrogata, il giudice di secondo grado poteva definire il processo con l’accoglimento, in tutto o in parte, concordato tra le parti, dei motivi di appello, con la conseguente rideterminazione della pena. Accadeva in tal modo assai frequentemente che imputati anche di gravissimi reati, già condannati in primo grado con riduzione della pena di un terzo per la scelta del giudizio abbreviato, potessero usufruire di un ulteriore sconto per effetto del patteggiamento concordato, finendo in tal modo per essere assoggettati a pene assolutamente esigue rispetto a quelle edittali.

Da segnalare poi l’estensione dei poteri di coordinamento, di impulso e di avocazione, del procuratore nazionale antimafia anche ai procedimenti di prevenzione antimafia, con ciò razionalizzando un settore rimasto estraneo alla disciplina di coordinamento introdotta dal legislatore del 1991, razionalizzazione completata con la previsione dell’attribuzione di tali misure alle Dda, e, soprattutto, con la possibilità di procedere a sequestro e confisca dei patrimoni dei mafiosi, anche dopo la loro morte, nonché di procedere a sequestro e confisca per equivalente, qualora i beni originari fossero stati distratti od occultati.

A distanza di un anno è seguito un nuovo pacchetto sicurezza, approvato con Legge 15 luglio 2009, n. 94, con il quale si porta a compimento il disegno di contrasto all’immigrazione clandestina (ma di questo non si parlerà in questa sede) e nel contempo si affinano alcune delle misure già adottate in tema di criminalità organizzata e se ne adottano altre, nuove. Tra le prime si segnala l’estensione del sequestro e confisca per equivalente anche all’art. 12 sexies L. 356/92, l’estensione del potere di accesso del procuratore nazionale antimafia ai registri delle misure di prevenzione, sui quali dovranno iscriversi tutti i procedimenti avviati anche su iniziativa degli organi di polizia; il sistema della gestione dei beni sequestrati, sia con riferimento a quelli sequestrati in sede di misure di prevenzione che di sequestro preventivo penale.

Di nuovo vi sono le norme che intervengono in materia di potere di accesso dei prefetti in materia di appalti, di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, e, soprattutto, la disciplina totalmente rinnovata del “carcere duro”, ovvero dell’art. 41 bis, comma 2 dell’Ordinamento penitenziario, quanto a durata, presupposti di proroga, gestione, collocazione dei detenuti (anche in aree insulari), così da renderlo fortemente inasprito, ai limiti della compatibilità costituzionale.

Ancora da segnalare l’aumento delle pene pecuniarie in tema di responsabilità delle persone giuridiche per reati di criminalità organizzata.

Sul piano amministrativo, va rilevato il soddisfacente andamento della cattura dei latitanti più pericolosi di cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, su quello giudiziario il consistente aumento dei sequestri di beni appartenenti a mafiosi, spesso di grande valore patrimoniale e simbolico.

Detto questo (con l’avvertenza che altre misure inserite nelle due leggi possono, se pur occupandosi di materie diverse, avere benefici effetti in tema di criminalità organizzata), sembrerebbe che si sia in presenza di una stagione particolarmente felice nella storia dell’antimafia istituzionale, ma prima di concludere in questo senso non sarà inutile una verifica di quello che viene previsto in altri provvedimenti emessi dal governo e non ancora tradotti in leggi dello Stato. I risultati condurranno a valutazioni del tutto opposte.

Non si può non partire in questa analisi dal disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche ed ambientali, pervenuto al Senato per la seconda lettura. Di questo disegno molto si è detto e non è il caso di ripeterlo.

Pur con le eccezioni riservate ai delitti di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater (quelli relativi a mafia e terrorismo), non si può non insistere sul punto che le pesanti limitazioni quanto a presupposti e durata previste per i reati “comuni”, (limitazioni che renderanno di fatto impossibili le intercettazioni per tale vasto genere di reati) finiranno con l’incidere pesantemente anche sull’accertamento dei reati commessi dalle organizzazioni mafiose. Queste ultime, infatti, sono alacremente impegnate in reati come truffe aggravate, falsi nummari, falsi materiali di documenti, corruzione, frodi in commercio, in pubbliche forniture, turbata libertà degli incanti, riciclaggio, sfruttamento della prostituzione, reati che, insieme a molti altri, costituiscono sovente la spia di interessi mafiosi, dell’esistenza di organizzazioni attive su un determinato territorio.

Ma è soprattutto in materia dei reati di omicidio ad opera di ignoti, che i danni della nuova disciplina saranno più gravi, dal momento che l’assenza di un “colpevole evidente” impedirà l’avvio di intercettazioni a carico dei sospetti, con l’impossibilità di risalire non solo agli autori, ma anche al contesto mafioso nel quale quell’omicidio è maturato ed all’interno del quale vanno ricercati i mandanti diretti e quelli indiretti.

Pesanti inoltre le conseguenze derivanti dalla previsione della competenza di un organo collegiale, dal divieto di stralcio di intercettazioni prima del deposito, con conseguente discovery anticipata e irreparabile danno alla prosecuzione delle indagini, dalla impossibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi anche se per reati più gravi di quelli originari, tranne che non si tratti di reati di tipo mafioso e terroristico.

Problemi altrettanto complessi, anzi sicuramente maggiori, sono posti dal disegno dilegge sulla riforma del codice di procedura penale, anch’esso pendente al Senato, nel quale viene attuato lo stravolgimento dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, essendo affidata a quest’ultima in via esclusiva la competenza ad acquisire le notizie di reato, attività preclusa al pm che dovrà limitarsi a riceverle ad indagini concluse, senza alcuna previsione di limite temporale per la trasmissione da parte della polizia giudiziaria. Il pm viene trasformato da organo attivo nella ricerca della notizia di reato e di guida delle attività delegate alla Polizia giudiziaria in organo passivo, destinatario di notizie di reato già investigate in piena autonomia dalla Pg senza possibilità di partecipare allo svolgimento delle indagini.

Di fatto, è inutile nasconderlo, l’esercizio dell’azione penale in capo al pm rimane una pura enunciazione teorica svuotata di ogni contenuto sostanziale e la lesione degli artt. 109 e 112 della Costituzione appare clamorosa, tale da incidere anche sui principi della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e sull’autonomia e indipendenza della giurisdizione. Questa volta la disciplina non conosce limiti, riguardando tutte le tipologie di reato, senza eccezione, con una serie di corollari che vanno dalla sottrazione dei poteri di coordinamento oggi affidati al procuratore nazionale antimafia, alla introduzione della discrezionalità dell’azione penale, alla trasformazione della figura del p.m. in quella dell’avvocato dell’accusa, che già dalla sua formulazione, tanto cara al presidente del consiglio, definisce il ruolo subordinato di quest’organo dall’esecutivo.

Un tassello importante nel disegno di smantellamento operativo delle Procure è costituito dalla impossibilità programmata di provvedere a colmare i vuoti di organico, con conseguente sofferenza permanente che ne mortificherà ulteriormente autonomia e funzionalità.

Ad abundantiam ed in estrema sintesi, va ancora citato il provvedimento “anticrisi”, già convertito in legge e già corretto con nuovo decreto nello stesso giorno della sua approvazione (!), comprensivo di norme pesantemente limitative della giurisdizione contabile della Corte dei Conti, sia in tema di ambito di competenza che sin quello dei presupposti di intervento (un modello di intervento abbastanza simile a quello adottato per le intercettazioni).

Il decreto è comprensivo anche delle norme sul rientro dei capitali irregolarmente detenuti fuori dal territorio dello Stato, dietro corresponsione di modestissimo prelievo fiscale (il 50% sulla rendita presunta del 2% sull’intero capitale, per ciascuno degli ultimi cinque anni di permanenza all’estero), con totale esenzione da ogni ulteriore pregiudizio fiscale. Tale estensione è stata recentemente estesa, in sede di conversione in legge del decreto legge correttivo, anche a reati penali fiscali e societari, di particolare gravità, fra cui il falso in bilancio, false comunicazioni sociali ed altro.

Su piani diversi vanno ancora citati i programmi di investimento che gravitano tutti sulla costruzione di “grandi opere”, prime tra tutte il ponte sullo Stretto, Expo 2015, il piano casa.

Tutte le misure sopra elencate hanno un’incidenza positiva sugli interessi della cosiddetta borghesia mafiosa, quella cioè inserita nel mondo degli affari e dell’imprenditoria, sottratta al rischio di nuove intercettazioni per le attività tipicamente affaristiche-imprenditoriali, al rischio di indagini contabili circa la destinazione di buona parte della spesa pubblica, beneficiaria di una nuova sanatoria a basso costo per i capitali costituiti o depositati all’estero, sanatoria contestuale alla dichiarata intenzione di colpire “paradisi fiscali” ormai svuotati senza rischio alcuno, sottratta soprattutto dalle curiosità di pubblici ministeri in cerca di notizie di reato in materia di truffe comunitarie, di tutela dell’ambiente, di traffici di rifiuti, di collusioni tra criminalità organizzata e ambienti politici e finanziari.

Si tratta ora di stabilire se si sia in presenza di una vera e propria schizofrenia tra comportamenti virtuosi, repressivi della criminalità mafiosa, e comportamenti che, oggettivamente o soggettivamente poco importa, si collocano a tutela degli interessi della borghesia mafiosa di cui sopra si faceva cenno, ovvero se si sia in presenza di un disegno consapevole e raffinato di una nuova forma di dialogo e di convivenza con parti importanti della società e dell’economia del nostro paese.

Nella storia d’Italia, con intervalli più o meno lunghi, i governi, democratici o autoritari, hanno proceduto periodicamente a forme di contrasto alle mafie che si sono risolte, sempre, in una sorta di potatura dei rami militari, divenuti troppo folti e ingombranti, per chiudere una fase e riaprirne un’altra, apparentemente più tranquilla per l’ordine pubblico, ma destinata invariabilmente a riprodurre col tempo gli stessi problemi della fase precedente, con successiva necessità di nuovi interventi repressivi. Basti ricordare le vicende del prefetto Mori in Sicilia, del questore Marzano in Calabria.

Potrebbe essere questa una delle potature periodiche di cui si parlava: si chiudono i conti con i vecchi capi, i grandi latitanti, con gli “associati” e le loro attività abituali, soprattutto estorsioni, e dunque si aumentano le pene per i reati associativi, si inasprisce il regime carcerario duro, con riapertura delle carceri nelle isole, si confiscano i beni di diretta origine illecita.

Si apre contemporaneamente un nuovo ciclo, nei confronti di quei settori mafiosi che hanno saputo trasformarsi in imprenditori, in Sicilia come in Lombardia, in Calabria come in Piemonte, in Campania come nel Lazio, che partecipano come tali alla realizzazione delle grandi opere, che sono integrati nella società tanto da divenire interlocutori necessari di ogni forma di potere amministrativo, politico, istituzionale.

Il rigoroso silenzio mantenuto a livello politico sulla presenza della mafia in Lombardia come in altre regioni del nord, a fronte dell’assordante clamore contro i “diversi”, per razza, lingua, religione, sesso, offre un chiaro segnale in questo senso.

A tutto questo non rimane estranea la grande partita in corso circa le richieste di finanziamento del Sud, in particolare la Sicilia, la minacciata costituzione di un partito del Sud, il riemergere di ricorrenti spinte autonomiste, il dibattito dietro il quale emerge l’ombra di un convitato di pietra, che al momento sta a guardare.

La partita è ancora aperta; il disegno di legge sulle intercettazioni è fermo al Senato; lo stesso vale per la riforma del codice di procedura penale. Lo scudo fiscale è invece giunto in porto, nella maniera peggiore, in linea con lo scenario sinora delineato. Saranno questi gli snodi decisivi del prossimo autunno e dal loro esito si capirà meglio quale sarà in futuro il destino della lotta alla mafia.

Vincenzo Macrì

procuratore nazionale Antimafia aggiunto