IL SILENZIO DELLA FORESTA

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Gentile signor Congiusta, sono un ragazzo di Locri, il mio nick è enorbalac, il mio nome non ha importanza.

Così inizia una e-mail che, con piacevole sorpresa, ho trovato nella mia posta.

Il “Ragazzo di Locri” attraverso il suo racconto, liberamente ispirato alla Storia di Gianluca non ha solamente voluto esaltare il dinamismo di quanti come Gianluca credono in una Calabria non più schiava della ‘ndrangheta, ma ha voluto dimostrare che una Calabria migliore è possibile a condizione che,i nostri tanti Giovani che oggi vivono al nord,decidessero di tornare nella nostra terra madre e stringere quel “patto solenne” che nel romanzo stringono Giovanni e Francesco.

A tutti i Giovani come loro va il mio forte abbraccio, perché abbracciando loro mi sembrerà di abbracciare il mio Luca.

Mario Congiusta,  papà di Gianluca

 

 

Domenica, 17 maggio 2009

 

Il silenzio della foresta

 

 

 
 

 

 

Siamo cresciuti nello stesso quartiere, al borgo vecchio, tra le strade di polvere arse dallo scirocco e i prati di spine che, il giovane entusiasmo e la fervente fantasia di noi ragazzi, avevano trasformato in piccoli campi di calcio.

Siamo nati nello stesso anno, nello stesso mese di dicembre, a distanza di una settimana uno dall’altro.

Tre amici inseparabili, molto più che tre fratelli!

 

 

 

 

 Abbiamo frequentato le stesse scuole, le stesse compagnie, fino al liceo, poi le nostre strade hanno preso direzioni diverse, come rivoli di uno stesso fiume che si separano e attraversano territori sconosciuti prima di ricongiungersi al mare.

Francesco aveva deciso di studiare fuori, fin da ragazzino la sua passione era quella di fare il magistrato. In quell’estate del 92, il suo sogno divenne più che mai reale. La morte di Falcone prima e la strage di Via D’Amelio un mese dopo, quelle lamiere contorte ancora fumanti, quelle sirene che ululavano impazzite in una calda sera d’estate, avevano scosso profondamente tutti noi.

 Chi vive in una regione del sud, come noi calabresi, si sente doppiamente coinvolto,  vittima di una mafia sempre più soffocante e colpevole per il senso d’impotenza di fronte ad un fenomeno di così vaste proporzioni.

Sentivamo che in quell’estate qualcosa era cambiato, non potevamo più restare con le mani in mano, dovevamo agire, dare concretamente il nostro contributo. Siamo scesi in piazza, abbiamo partecipato ad uno dei tanti ed ennesimi cortei contro la mafia ma, sapevamo che proprio in testa al corteo c’era il sindaco, cognato del boss locale e con lui il Dott. Misano, maggiore imprenditore edile di Ciserno che, con la  famiglia mafiosa dominante, aveva fatto affari e costruito la propria fortuna. Ipocrisia, tanta ipocrisia si respirava in quel lungo corteo, parole vuote che presto sarebbero state dimenticate.

Sembrò lunga ed infinita quell’estate, ricca di avvenimenti, c’erano stati gli esami di maturità e poi quelle stragi di mafia, le nostre prime storie d’amore, il nostro primo vero impegno civile, le prime scelte importanti che ci avrebbero resi più adulti e portato a dividerci e ad intraprendere cammini diversi. Francesco si iscrisse a giurisprudenza, nell’Università “La Sapienza” di Roma, io a Scienze politiche a Padova e Gianluca invece decise di restare a Ciserno, continuare l’attività del padre che aveva una piccola azienda.

Francesco era stato sempre il più pragmatico tra noi, riteneva che le parole sono un alibi per non agire, un modo per nascondere il vuoto d’intenzioni, dunque, aveva inseguito il proprio sogno, diventare Magistrato e combattere la mafia in prima linea.  Anche Gianluca con la sua decisione di rimanere a Ciserno aveva manifestato la volontà di non arrendersi, sosteneva che la terra è una seconda madre e che abbandonare la propria terra è come abbandonare la propria madre in un momento di difficoltà, diceva: “io costruirò un argine al dilagare mafioso, coltiverò un seme di speranza in mezzo a tanta rassegnazione, voglio che i miei figli siano orgogliosi di essere nati qui!”. Io invece avevo ancora le idee confuse, pensavo alle parole del giudice Falcone che aveva definito la mafia un fenomeno umano e che sosteneva che se i giovani negheranno alla mafia il loro consenso, anche la Mafia, che è un fenomeno umano, cesserà di esistere. Con la mia scelta, in realtà, scappavo via, avevo bisogno di stare lontano da mia “madre” per non essere soffocato da tanto amore, avevo bisogno di osservare il tutto con il dovuto distacco, come si fa per i quadri d’autore che bisogna osservarli dalla giusta distanza per poterne cogliere l’armonia della luce e dei colori.

 C’era bisogno di una svolta culturale, c’era bisogno di un nuovo modo di affrontare le cose, di un linguaggio che arrivasse direttamente al cuore della gente, scuotendola fin dal profondo. Al contrario di Francesco io credevo molto nella forza delle parole, le parole possono essere vuote, retoriche, leggere come foglie ingiallite portate via dal vento, ma possono essere anche simbolo di libertà, strumento attraverso il quale esprimere il proprio pensiero e possono diventare un’arma più potente di qualsiasi bomba o di qualsiasi raffica di mitra, quando aiutano la gente a prendere coscienza di sé e della propria dignità di uomini liberi.

Continuammo a mantenere i contatti, attraverso telefonate e lettere che, nel tempo, divennero sempre più rare. Seguivo a distanza l’evoluzione dei miei amici d’infanzia. Francesco, determinato come al solito, conseguiva risultati sempre più brillanti. Si era laureato in quattro anni col massimo dei voti e si era iscritto nella scuola di magistratura. Gianluca invece aveva ingrandito l’azienda del padre, si era conquistato la fiducia e la simpatia della gente di Ciserno e dei paesi limitrofi e aveva aperto una catena di negozi di telefonini. Non si era mai piegato a pagare il pizzo e orgogliosamente aveva ricostruito il proprio negozio ogni volta che aveva subito un attentato. Io invece procedevo lentamente, ero uno studente fuori corso e frequentavo ambienti diversi, il giornale, il teatro, la radio. Luoghi legati tra loro da un unico filo comune, la parola, il linguaggio. Francesco era diventato un magistrato ed io nel frattempo mi ero laureato, Gianluca invece consolidava sempre più la sua attività.

Nei miei articoli, nei miei spettacoli teatrali, nei miei interventi alla radio mi occupavo di Sud, il Sud non come luogo geografico ma come condizione esistenziale. Appartenere al Sud, significa conquistarsi il proprio spazio nella vita col doppio della fatica, significa essere generosi del poco che si dispone perché capaci di dare valore alle cose, significa riuscire a mantenere la propria onestà intellettuale e morale pur avendo vissuto a contatto con il compromesso e con la corruzione, significa credere fortemente nei propri ideali, nei propri valori, avere delle radici profonde che segnano la tua identità per sempre, come un marchio indelebile inciso sull’ anima che ti porti dietro ovunque e che contraddistingue il tuo modo di essere, il tuo modo di agire.

Durante quest’esilio volontario, lontano da casa, il tempo trascorse senza particolari novità, era arrivata un’altra estate incolore, tra i campi di mais della pianura veneta ed il vapore di nuvole opache che oscuravano il cielo.

Quella sera squillò il telefono,

– Pronto Giovanni?

Riconobbi subito la voce allegra e la forte cadenza dell’accento calabrese che Gianluca aveva mantenuto intatti in tutti questi anni.

– Sai che giorno è oggi?

– Venerdì!

– Veramente è il 19 luglio, ti ricorda niente questa data?

Automaticamente mi venne da pensare al 19 luglio del 1992 ed ai servizi che avevo appena visto nel telegiornale sui dieci anni dalla strage di Via D’Amelio.

Gianluca mi disse,

– sono passati dieci anni, non mi sembra vero, dieci anni da quando ci siamo diplomati!

– Avevo pensato di invitarvi a trascorrere le vacanze da me, ho una casa al mare, giusto per rivivere un po’ i vecchi tempi. Ho già chiamato Francesco e ha detto che aveva proprio bisogno di rivedere il nostro mare, a questo punto manchi solo tu, non puoi dirmi di no. 

Sorrisi e di fronte ad una proposta così convincente risposi di si.

Avevo due settimane di ferie e così il giorno dopo preparai le valigie e mi diressi alla stazione. I treni del Sud si riconoscono perché sono accerchiati da un nugolo di parenti e di amici e perché c’è un fiorire di accenti e di dialetti che riempiono l’aria di suoni. Guardavo fuori dal finestrino l’alternarsi dei paesaggi e delle strade, man mano che ci avvicinavamo al Sud l’aria si faceva più calda, il territorio più aspro e selvaggio e i paesaggi sempre più confusi e disordinati, case cresciute senza una visione futura, nella precarietà di una vita vissuta giorno per giorno. Alla stazione di Ciserno erano venuti a prendermi Francesco e Gianluca, finalmente i tre moschettieri tornavano insieme, quante storie, quanti fatti avremmo avuto da raccontarci!

Dopo un primo imbarazzo iniziale di saluti e convenevoli, cominciammo a parlarci come se tutto quel tempo della nostra separazione non fosse mai trascorso. Eravamo tornati i tre ragazzi di allora, lo stesso sguardo fiero, lo stesso orgoglio, lo stesso candore, la stessa voglia di cambiare il mondo. Gianluca ci raccontava che le cose a Ciserno erano peggiorate. Il Paese non era più in mano al vecchio boss, che nel frattempo era stato arrestato ma, adesso c’erano i suoi figli ed i suoi nipoti, in lotta con l’altra famiglia mafiosa di Ciserno, che nel frattempo aveva rialzato la testa.

Il paese però era più bello che mai, la lente della nostalgia è in grado di trasformare gli aspetti più negativi in gradevoli ricordi. Anche quelle strade assolate sulle quale più volte c’eravamo sbucciati i ginocchi erano ormai angoli di paradiso che albergavano solo dentro il nostro cuore. L’unica vera amarezza era constatare che il tempo si era fermato, erano passati gli anni ma i problemi erano sempre gli stessi, un economia stazionaria, una delinquenza arrogante e quei ragazzi che avevano smesso di sognare, arrendendosi alle illusioni di una vita facile. A diciott’anni basta una macchina potente ed un vestito nuovo per saziare la fame di vita!

Ci sentivamo sconfitti, le nostre idee, i nostri sogni erano diventati perle per porci, parole vuote per poveri illusi. Bisognava riempire quelle parole di contenuti per renderle forti e credibili. Discutemmo a lungo quella sera fino ad ammettere che il richiamo del sud era ancora forte dentro di noi. Il nostro impegno non si era ancora concluso o forse non era mai davvero iniziato. Furono giorni sereni, il mare era cristallino ed il sole colorava la nostra pelle restituendoci l’immagine di ragazzi del sud. Ritornai a Padova con una energia nuova, con tanta voglia di fare e soprattutto col desiderio nascosto di “rotolare verso sud”. Trascorse ancora qualche anno nella monotonia di sempre, lavoro, impegni, teatro, radio amici, sempre di corsa come se stessi inseguendo qualcosa di irraggiungibile fino a quando nella primavera del 2005, in una grigia sera di fine maggio, il mondo smise di correre.Quell’anno si   respirava un’aria strana, l’estate tardava ad arrivare, c’era una pioggerella pressante ed un vento pungente sembrava voler presagire qualcosa.

 Quella sera ero a casa di amici e mentre ci intrattenevamo sul pianerottolo per gli ultimi saluti, tra una battuta e l’altra, lo squillo del telefono impietoso, impertinente, dirompe quell’atmosfera di serena quotidianità. Fu quella telefonata,quella frazione di secondo che separa la dolce inconsapevolezza dall’agghiacciante scoperta, che mi cambiò per sempre la vita. Gianluca era morto o meglio era stato ucciso.Non volevo crederci, avevano sbagliato persona, è stato un errore, Luca no, non è possibile. Luca era uno di noi. Era uno di quei pochi ragazzi intraprendenti, vorace di vita, ambizioso, impegnato nel sociale e per il sociale. Anche se giovanissimo, Luca era il simbolo del cambiamento. Sbaglio a dire era, Luca è, perché da quella notte il cambiamento ha avuto inizio. Per la prima volta, paesi interi, adulti, bambini, anziani, malati, ricchi e poveri, hanno iniziato a far sentire la rabbia verso quel diavolo che assoggetta, uccide, distrugge: LA MAFIA. I paesi della costa jonica si sono vestiti a lutto, i negozi di Ciserno hanno chiuso in segno di protesta, scrivendo sulle loro vetrine: ” Chiuso perché qualcuno ha rubato la vita a Gianluca”.Quel giorno a Ciserno si respirava l’odore della morte, si sentiva il silenzio degli abissi. Non riuscivamo a darci pace, non riuscivamo a darci una spiegazione sul perché un ragazzo normale, uno di noi, avesse subito una fine così violenta.

Colpo, lupara, ucciso, ma cosa sono questi termini mi chiedevo?Cosa dicono?Perché la gente vaneggia?Cosa centra con noi tutto questo? Noi siamo dei normalissimi ragazzi, abbiamo sempre vissuto nell’onestà, nella legalità, nel rispetto dei valori umani, senza fare mai distinzione, tra ricchi e poveri, ma solo distinguendo i buoni dai cattivi. Purtroppo, però, l’errore è stato proprio questo, considerare i cattivi in un emisfero a parte, illudersi che fossero lontanissimi rispetto alla nostra esistenza. Era come se si stesse parlando di un’altra Calabria, una Calabria che non conoscevo e che non avrei mai voluto conoscere. La sua è stata un’esistenza speciale e così è stato in vita come in morte.

Io e Francesco ci rivedemmo al funerale ancora increduli per quanto accaduto. Quel giorno prendemmo un impegno solenne, in onore di Gianluca, ritornare al sud, dare una mano d’aiuto a quella “madre” che per troppo tempo ci aveva aspettato. Inviai una lettera al gazzettino, presentai le mie dimissioni e il giorno successivo mi recai alla “Gazzetta del sud” per offrire la mia collaborazione, mi sarei occupato di cronaca, cronaca nera. Francesco invece presentò immediatamente richiesta di trasferimento che ottenne nel giro di breve tempo, le nostre sono zone a rischio e se un magistrato si offre volontario è sempre il ben accetto. Cominciammo a tenere seminari nelle scuole, incontri nelle librerie, dibattiti nelle radio ed in tutti quei luoghi frequentati dai giovani, aprimmo persino un blog che si occupava di giustizia e legalità, volevamo ricordare Gianluca, il modo in cui era stato barbaramente ucciso, volevamo che il silenzio non calasse sulla sua storia, uccidendolo per una seconda volta, volevamo che il suo sacrificio non rimanesse vano e che quel suo sorriso contagioso potesse riportare luce in quei momenti bui della nostra storia, desideravamo che quel seme di speranza che lui aveva piantato potesse finalmente germogliare. 

Francesco lavorava alacremente, fin da subito si era occupato dell’inchiesta su Gianluca, io pubblicavo qualsiasi notizia che potesse aprire uno spiraglio su quella inchiesta, cercando di mantenere i riflettori puntati sul caso Gianluca. Qualcosa avevamo ottenuto, l’opinione pubblica nazionale aveva preso a cuore il caso di Gianluca, si era stretta attorno al dolore dei suoi familiari, alla tenacia di suo padre che nemmeno per un istante aveva pensato di arrendersi e dava forza a tutti noi con il suo esempio. Capii che il vero linguaggio capace di arrivare al cuore della gente è il linguaggio dell’amore, l’amore di un padre verso il figlio, l’amore verso la propria terra, l’amore per la giustizia e soprattutto l’esempio, bisogna spendersi in prima persona per essere credibili e convincenti. Infine capii che tutti quegli anni non erano passati invano, le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, sono un fiume carsico che scava nella roccia fino a trovare il suo percorso affiorando al momento giusto in sorgenti naturali con tutto il proprio carico di purezza e di limpidità. C’è un proverbio che dice che “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce” e quella foresta stava crescendo senza che noi ce ne accorgessimo. La domenica del 16 ottobre un’altra notizia eclatante aveva cominciato a diffondersi tra la gente, a Locri, in pieno centro, durante le elezioni primarie della Sinistra era stato ucciso il vice presidente della Regione Calabria. Mi recai sul posto, c’era molta confusione, cercai di cogliere gli umori della gente, di capire esattamente ciò che era successo. Una cosa fu subito chiara, non era il solito omicidio di mafia, si trattava di un omicidio eccellente che colpiva interessi molto più grandi. Anche il tipo di esecuzione così clamorosa, in pieno centro, in pieno giorno, nel pieno della confusione, era il segno che la “ndrangheta” aveva raggiunto ormai il culmine della propria arroganza e spavalderia certa del silenzio complice della gente e della propria condizione di impunibilità. Il giorno dopo però accadde qualcosa di imprevisto, i ragazzi, proprio quei ragazzi della cui reazione avevo dubitato, scesero in piazza con uno striscione eloquente ed imbarazzante “e adesso ammazzateci tutti”. Poche parole, dritte al cuore della gente, puntate verso quelle coscienze assopite che per troppo tempo avevano fatto finta di niente. Una “bomba” il cui boato fece il giro del mondo. Mi tornò in mente un vecchio ritornello di una canzone di De Andrè “anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”. Gianluca non era morto invano ed il nostro impegno non era stato inutile, tutto improvvisamente aveva un senso, ognuno di noi, col proprio piccolo contributo, col proprio bagaglio di sofferenze e di umiliazioni, si sentiva finalmente coinvolto in un unico grande progetto di libertà. Quel seme di speranza che Gianluca aveva piantato era finalmente germogliato, aveva dato i suoi frutti e tutto intorno erano cresciuti tanti piccoli arbusti. Nel silenzio del sottobosco era cresciuta una foresta!

Postato da: enorbalac a 19:23 |

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