SAN LUCA, SONO DA BONIFICARE I LUOGHI DELLA “MAFIOCRAZIA”

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SAN LUCA, SONO DA BONIFICARE I LUOGHI DELLA  “MAFIOCRAZIA”

Ora che si sono, quasi totalmente, spenti i riflettori sulla strage consumata a Ferragosto, a Duisburg e quando sembrano anche esauriti i postumi mediatici di quella efferata e tracotante manifestazione di violenza che ha stroncato sei giovani vite calabresi in terra di Germania, nel contesto, come dicono, di una faida, o, che sarebbe meglio dire, di una lotta di potere, tra alcune famiglie di San Luca,  val, forse, la pena di tentare una riflessione pacata e ragionata, per cercare di capire le ragioni vere e le cause reali di tanta violenza sanguinaria.
Un tentativo, per cercare di andare oltre le apparenze, sulla condizione di San Luca e dei sanluchesi, che ripetiamo, a distanza di quasi vent’anni, dopo il primo, datato ai primi mesi del 1990, a ridosso della liberazione , dopo quasi due anni dal suo sequestro, del giovane, Cesare Casella.

Quella prima riflessione, datata febbraio 1990, fu un contributo corale dei redattori di “Calabria”, il mensile del consiglio regionale che, all’epoca dirigevamo, e dei migliori e più attenti tra i collaboratori di quel mensile, oltre ad interventi, commenti e proposte di uomini della chiesa, di politici, intellettuali e sociologi. Ben cinquanta pagine di quel mensile, del febbraio 1990, furono dedicate  a San Luca ed ai luoghi calabresi dove, già allora, scrivevamo, fosse regnante la mafiocrazia.
Se oggi, a distanza di quasi vent’anni, pur non disponendo più della responsabilità di un giornale, sentiamo il bisogno di tornare sull’argomento, non è certo,  per rimestare, ancora, considerato che in tantissimi l’hanno già fatto, sull’efferatezza della strage di Ferragosto, ma tentare di capire come e,  perché, sia trascorso invano, il tempo intercorso, tra la liberazione di Cesare Casella, che segnava la fine della pratica dei sequestri di persona e la strage di Duinsburg, senza che nulla sembri mutato nella società e nella vita di San Luca, come degli altri luoghi, nei quali, intanto, la mafiocrazia sembra si sia venuta sempre più consolidando.
Per restare, come si dice, terra terra, ci poniamo, oggi, lo stesso interrogativo che, già allora si affacciava, anche se con meno consapevolezza di oggi, nella nostra mente. E, cioè, serve a qualcosa ed a qualcuno, visti i risultati quasi nulli intanto conseguiti, affannarsi ad analizzare, riflettere, tentare, anche ed a volte, di proporre antidoti, sulla presenza ed incidenza della ‘ndrangheta nella nostra regione?
Nonostante tutto, riteniamo ancora sia doveroso porsi questo interrogativo che, va ben al di la della contingenza della strage di Duisburg e delle sue immediate conseguenze, per investire il modo di essere, del ieri, dell’oggi e del domani, di intere zone della nostra regione, sempre più estese e meno definite, nelle quali, ormai, anche il semplice ed ordinario sopravvivere sembra stia diventando un atto di coraggio.

I LUOGHI DELLA MAFIOCRAZIA
San Luca, è bene dirlo sulla porta, non è luogo consueto della Calabria. O, per essere ancora più chiari, San Luca non è la Calabria, anche se, come disse, all’epoca, lo stesso Cesare Casella, dopo essere stato liberato, e come oggi ripetiamo in tanti, non può neanche dirsi che San Luca sia l’Amazzonia.
San Luca, che, sorge ai piedi dell’Aspromonte, ad appena 250 metri di altitudine, ai margini di una delle zone che, in Italia, hanno storia più antica e trimillenaria e dove si esercitò la capacità legislativa di Zaleuco che, tra i legislatori conosciuti, fu il primo, è luogo dove, la legge dello Stato è venuta perdendo vigore e validità nei comportamenti quotidiani più semplici, attraverso anni di sedimentazione di piccole e grandi violenze, naturali ed umane. San Luca è nella Locride che ha visto crescere, fino ad imporsi, negli ultimi trenta, quaranta anni, il governo della mafia, fino all’affermazione della vera e propria mafiocrazia che anchilosa la presenza e l’attività degli enti locali, piega al suo fabbisogno le articolazioni periferiche dello Stato, rende difficile e precaria, come più volte e reiteratamente, quanto inutilmente, denunciato pubblicamente dagli stessi operatori, l’amministrazione della Giustizia e l’esercizio corretto degli altri poteri dello Stato.
In questa zona, nella Locride, già alla fine degli anni Sessanta, era stato creato un “Comitato dei sindaci contro la mafia”. Comitato che, dopo un lungo periodo di sonno, è stato riesumato, poco dopo la metà degli anni Ottanta, quasi in concomitanza con la disperata e disperante presenza, nella zona, di Angela Casella, madre di Cesare, allora nelle mani dei suoi sequestratori.
San Luca resta, però, ancora oggi, una di quelle zone che rappresentano l’altra Calabria, dove lo strapotere mafioso ha raggiunto, da tempo, limiti intollerabili che, per essere stati tollerati, forse anche in quanto sottovalutati, hanno finito con l’imporsi.
Come San Luca sono, in Calabria, anche se se ne parla meno, la Piana del Tauro, con, al centro, Gioia Tauro, tutta la vasta area intorno a Reggio Calabria, comprese larghe fasce della periferia della città ed, ora, dagli ultimi venti anni a questa parte, se pure con notevoli differenze, larghe plaghe dell’area di Lamezia Terme, del Crotonese dei due versanti, jonico e tirrenico, del Cosentino. Ma, quello che più conta, è che, ormai, la presenza, l’attività e gli interessi della ‘ndrangheta hanno, da tempo, superato, non solo i confini regionali, ma quelli nazionali, con presenze significative, non solo in Germania, del che la strage di Duinsburg è una tragica conferma, ma anche nei Paesi Bassi, in Ungheria, Albania, oltre che nei paesi dell’America Latina, produttori ed esportatori delle più grosse quantità di stupefacenti.
In queste zone, ma, segnatamente, nella città di Reggio e nel suo interland, nella Piana del Tauro e nella Locride, negli anni Ottanta, gli omicidi, nella colpevole indifferenza di parlamento e governo, si sono contati a parecchie centinai l’anno, con corollari di altri reati, contro la persona ed il patrimonio ed il florilegio dei traffici delle droghe, delle armi, dei preziosi. A tutto questo, a San Luca, per tutti gli anni che vanno dalla fine del Settanta a tutto l’Ottanta, si sono aggiunti i sequestri di persona. E furono questi delitti, reiterati nel tempo e portati a compimento con sempre maggiore tracotanza, che hanno guadagnato a questo luogo della mafiocrazia, non peraltro esclusivo, l’appellativo di “capitale dei sequestri” ed una maggiore attenzione del resto del Paese.

ALL’INTERNO BISOGNA DISTINGUERE
Per la Piana del Tauro, per tutta la zona di Reggio Calabria, così come per la Locride, per la stessa San Luca e le altre plaghe pure citate, non si può né pensare, e meno che mai scrivere o dire che, tutti i calabresi che vi risiedono, o solamente vi abitano, siano mafiosi, né manutengoli dei mafiosi.
Anche in queste zone, la stragrande maggioranza della popolazione è costituita da gente onesta, che ha voglia di lavorare, che vorrebbe vivere tranquilla, che vorrebbe vedere progredire il proprio paese. Anche nei luoghi della mafiocrazia gli onesti sono i più, anche se, essere e mantenersi onesti, in questi luoghi, costa certamente maggiore fatica e, se non richiede proprio l’eroismo, spesso richiede, ormai, qualcosa che vi si avvicina.
Queste elementari constatazioni sono mancate, non soltanto negli abbozzi di analisi dei mass media, ma anche, e questo è certamente più grave, nell’attività investigativa di certa magistratura inquirente e delle forze dell’ordine, protagoniste di troppi rastrellamenti a tappeto, quasi fatti alla cieca, portati avanti senza alcun criterio, se non quello di avere la certezza di non lasciare alcun buco insondato. Proponimento apprezzabile che, però, si scontra con la legittima reazione del cittadino onesto che, non solo vive le ristrettezze del contesto socio-ambientale, ma deve anche subire, ed a volte in modo reiterato e nelle ore della notte più fonda o delle primissime luci dell’alba, le perquisizioni, i controlli e tutto il resto.
La ripetizione, nel tempo, di queste situazioni, ha creato, a San Luca, come nelle vicine Platì ed Africo, un clima pesante che giunge quasi alla incomunicabilità allo stesso interno dei paesi, dove in effetti non esiste più una società capace di riflessioni comuni e di comuni proponimenti e, nella quale, ognuno tira, invece, per la sua strada, ignorando il vicino e richiudendosi, a sera, la porta, come se la chiudesse sul mondo intero.

DECENNI DI ABBANDONO
In queste realtà, per decenni, i problemi sono stati ignorati. Finché i “sanlucoti”, gli “africoti” ed i “platioti” si sono ammazzati fra di loro, nessuno se ne è curato. Degli abigeati che hanno costituito le prime forme di delinquenza, ci si è limitati a registrare le denunce le poche volte che esse venivano presentate. Quando, poi, con le ricorrenti alluvioni, prima ad Africo, poi a Platì, poi a San Luca, le montagne e le colline sono franate, portando via parte del cimitero e delle salme che vi erano sotterrate, pezzi dell’abitato, con uomini, donne e bestie e rendendo inabitabili grandi parti di quegli abitati, gli interventi dello Stato sono stati lentissimi, esasperanti, logoranti, specie per chi, ogni sera, era costretto a chiudersi in una casa che, un minimo spostamento della frana a monte, avrebbe potuto farla sparire, con i suoi occupanti, come era già avvenuto.
E intanto, con la devastazione dei campi e la distruzione di quel poco di pastorizia che c’era, cresceva a dismisura la disoccupazione e nessuno proponeva prospettive di alcun tipo.

POI VENNE LA “FORESTALE”
Poi venne la Forestale, e siamo già agli anni Settanta, con le sue assunzioni senza criterio e senza costrutto, legate, più alle amicizie che ai meriti ed ai bisogni. “C’erano famiglie dove lavoravano tutti ed altre dove a nessuno era stato trovato un posto”, mi diceva, alla fine dell’Ottanta, l’allora sindaco di San Luca, Angelo Strangio. La Forestale, non solo offriva salari superiori alla media, ma consentiva, almeno in quel primo decennio, di non lavorare e di stare all’aria aperta. Fu così che la Forestale divenne come una sorta di miraggio. Barbieri, sarti, calzolai, falegnami e gli altri artigiani ed anche i pochi contadini del paese cessarono le loro attività, per “arruolarsi” nella Forestale. Tutti pensarono di poter entrare nella Forestale. Ed anche dopo l’entrata in vigore della legge che bloccava le assunzioni – l’esercito dei forestali, intanto, aveva superato, in Calabria, l’incredibile cifra delle trentamila unità – le processioni dietro le porte delle segreterie politiche degli assessori, ma non solo di essi, continuò e, spesso, va pure detto, fruttuosamente, nonostante tutti i divieti.
In una società, già di per sé sfilacciata, la presenza ed il pressappochismo della Forestale, senza programmi e senza idee, andata avanti per decenni, con salari sempre consistenti, in aperto contrasto con i testi dei programmi operativi che, di anno in anno, la regione approvava, ma poi non si preoccupava di vedere realizzati, ha finito col far esplodere quel che era rimasto dei vincoli e dei rapporti, fino alla loro stessa nullificazione . Non solo, ma attaccando, attraverso il più vasto e generale tessuto sociale, anche i rapporti interni alla famiglia che, di quella società era, sempre e da sempre, stata la cellula unificante più solida.

LA DESTRUTTURAZIONE
DEL NUCLEO FAMILIARE
Ricordo, a questo proposito, la denuncia accorata, anche se un po’ retorica, fatta – era il 23 gennaio 1990 – durante la riunione aperta del consiglio comunale di San Luca, dall’allora assessore, Rechichi. Nelle sue parole c’era tutta la preoccupazione , per il lievitare progressivo della disgregazione sociale che, dopo aver distrutto il tessuto del paese, nei suoi rapporti e nelle sue abitudini, cominciava a colpire il primo, ma più piccolo e, se vogliamo, anche più fragile, nucleo di ogni comunità, la famiglia.
Segni premonitori, di questo nefasto processo disgregatore che stava investendo San Luca, ce n’erano stati. Ma nessuno se n’era mai preoccupato. Si era continuato ad andare avanti senza badarci troppo, tanto, ancora, i sanluchesi non avevano scoperto il sequestro di persona ed i delitti li consumavano all’interno del paese, o, al più, scendendo verso il piano, nella vicina Bovalino Marina, mai, comunque, spingendosi oltre i confini del circondario.
E’ illuminante, per capire bene questo processo disgregativo del tessuto sociale, quanto sosteneva, anche con gli scritti, Giovanni Giorgi, segretario della locale sezione del Pci. Nelle sue parole e nei suoi pochi scritti, c’era quasi una sorta di introspezione profetica. Attenti, diceva Giorgi, attenti che, San Luca, potrebbe saltare, ma, nell’esplodere, le sue schegge faranno danni e gravi anche fuori dal paese.
Su Giovanni Giorgi, circola ancora, a San Luca, un aneddoto, non so quanto veritiero, che ne disegna bene il carattere e la statura umana, sociale e politica.
Circolava, nella primavera del 1970, a San Luca, un foglio, con già diverse firme di rispettabili cittadini che, dicevano dell’onestà e della laboriosità di un locale boss mafioso, caduto nella rete della Giustizia. Volevano, gli amici rimasti fuori e promotori dell’iniziativa, mandare al tribunale, un attestato di benemerenza, per far sapere che “l’inquisito è una persona onesta e stimata”. Giunti con questo foglio, da, Giovanni Giorgi, e sottopostoglielo per la firma, questi avrebbe risposto: “Non io, ma i giudici devono decidere, se si tratta di una perla d’uomo, o di un mafioso”. Qualche giorno dopo aver dato questa secca risposta, Giorgi, era sfuggito, non  si sa come, ad un attentato. Qualcuno, senza colpirlo, aveva scaricato, al suo indirizzo, in un vicolo del paese,  un intero caricatore della sua pistola.

LA DIFFICILE CONVIVENZA
Scriveva, Giovanni Giorgi, qualche anno dopo, che, a San Luca, “I giovani, tra i 16 ed i 30 anni, che, nella stragrande maggioranza, sono disoccupati, dequalificati e poco desiderosi di trovare un lavoro produttivo, vivono, come gli adulti, d’altra parte, lavorando, nella Forestale, 51 giorni all’anno (la sola azienda di lavoro è la Forestale che occupa circa 130 braccianti agricoli al mese. Tutti gli uomini, dai 16 ai 65 anni, tranne poche eccezioni, vivono nell’attesa del turno di lavoro nella Forestale). Questa gioventù, per la minima parte, già costituisce la manovalanza mafiosa. Tutta questa gioventù, se non si prendono provvedimenti urgenti, giusti e precisi, rischia di rinnovare il fenomeno della vecchia mafia, con tutti i difetti e le pericolosità della nuova. I giovani, infatti, che giocano, oziano e vivono con quello che arrangiano con furti ed altri atti delinquenziali, sono costretti a nascondere i reati o a farli”.
Giovanni Giorgi, non chiedeva la luna, ma provvedimenti “urgenti e precisi”, per quei giovani a rischio.
Quei provvedimenti, che egli, già nei primi anni Settanta, riteneva, come in effetti erano, urgenti, non giunsero, né allora, né successivamente e San Luca, fin da allora, cominciò ad esplodere, prima con piccoli fuochi, poi con incendi sempre più consistenti, quindi, con i sequestri di persona, con eclatanti azioni, fino all’ultima, clamorosa, in terra di Germania, lo scorso Ferragosto.

LA PREVEDIBILE ESPLOSIONE
C’erano, quindi, stati, non soltanto i segnali, congrui e ripetuti, per poter prevedere l’esplosione, ma anche le avvertenze, le attenzioni di chi si era preoccupato di dire: attenzione, se non si interviene “San Luca esploderà, ma, nell’esplodere, le sue schegge faranno danni, e gravi, anche fuori dal paese”. Così è stato nei fatti. Duole, però, dover constatare che, dopo Duinsburg, si sia levato un coro di quasi attonita sorpresa. Ma, non so se dire, per fortuna, o per altro, qualcuno che sorpresa non ha mostrato ed, anzi, ha accusato un colpevole ritardo, c’è stato e si è trattato di uno di quelli che contano. Il ministro degli Interni, Giuliano Amato, ha, infatti, candidamente, parlando di Duinsburg, ammesso che lo Stato si è fatto anticipare. “Siamo arrivati tardi. – ha detto Amato – La faida è arrivata prima della giustizia”.
Ma, al vecchio cronista, se crea sorpresa che. anche Giuliano Amato, dall’alto della sua scienza e conoscenza, si accodi, così pedissequamente, a definire “faida”, ciò che con la vendetta di medievale ricordo non ha proprio nulla a che fare, molto e più, invece, riguardando la lotta, per la prevalenza ed il controllo del territorio, sorpresa non crea, invece, ed, anzi, apre barlumi di speranza il fatto che, finalmente, qualcuno, e di quelli che contano, è pronto ad accusare i ritardi dello Stato, nei confronti del Mezzogiorno e della Calabria, ritardi di cui è lastricata la storia, dall’unità ad oggi. Ed anzi, trovare un ministro che, con onestà, ammette i ritardi, potrebbe forse essere motivo di consolazione.
Senonché, l’avvio di consolazione muore subito, davanti altre affermazioni, queste si, veramente sconsolate e devastanti, quale quella pronunciata da tanti, nei brutti giorni di Duinsburg: “Il guaio è – si è detto, in quei giorni, da troppe parti – che , in Calabria, la ‘ndrangheta non dispone di un Provenzano!”. Se siamo a questo punto, significa proprio che non c’è futuro.
Se, infatti, veramente, c’è chi pensa che, le liti, le faide, le vere e proprie guerre della ‘ndrangheta, dovrebbero essere governate da un paciere interno all’organizzazione criminale, “autorevole e sentito”, come è stato detto e scritto, vuol dire che si è già. a priori, rinunciato allo stato di diritto e si è demandata la regolamentazione dei rapporti, non alla forza della legge, ma alle legge della forza. E questa sarebbe veramente la fine.

LA LEGGE DELLA FORZA
Ma torniamo al discorso principale e vediamo di capire, perché, in tanti, all’indomani della strage di Duinsburg, hanno dichiarato di essere rimasti, non solo sconcertati, che mi pare ovvio, ma anche sorpresi.
Lo sconcerto, a fronte di sei giovani vite violentemente spezzate, con tracotanza e sicumera, è, non solo legittimo, ma quasi dovuto. Non altrettanto la sorpresa. Anzi, la sorpresa, manifestata da ambienti che dovrebbero essere informati e smagati, o è artefatta e, quindi, falsa, o dimostra che, chi la manifesta non ha capito niente.
Della potenza, non solo transregionale ma anche transnazionale della ‘ndrangheta, si parla e si scrive ormai da qualche decennio. Si è detto e si è scritto che, l’organizzazione criminale calabrese produce un volume di affari annuo, pari ad una grossa, grossissima finanziaria governativa. C’è stato anche chi, recentemente, ha parlato di circa quaranta miliardi di euro l’anno. Il sostituto procuratore di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, ormai da tanto tempo va ripetendo che “la ‘ndrangheta, i soldi, non li conta più, ma li pesa a sacchi”. Dovrebbe, ormai, essere acquisito al senso comune che, la ‘ndrangheta è una potenza economica enorme che, in Calabria mantiene, probabilmente, soltanto gli affetti, ma gli affari, affari veri, li fa altrove, dove gira l’economia e circola il danaro, nelle altre regioni italiane, ma anche nel resto di Europa ed oltreoceano. Perchè, dunque, meravigliarsi, se un commando calabrese, come pare fosse quello che ha operato a Duinsburg, fa strage di suoi corregionali, davanti un ristorante tedesco gestito da calabresi? Nell’ottica di una organizzazione che fa un bilancio annuo che sfiora i 40 miliardi di euro, quasi tutti frutto del narcotraffico, che ha, in Germania e nella vicina Olanda, le sedi più comode, da cui si diramano i canali della distribuzione in tutta Europa, l’incidente di Duinsburg ci può anche stare e fa parte delle previsioni, alla voce “imprevisti”. Semmai sorprende che, per quella strage, si continui a parlare di “faida” e si torni alla sua presunta origine che si collocherebbe, nientemeno che, al febbraio 1991, quando, due giovanissimi sanluchesi, lanciarono, nel circolo Arci del paese preaspromontano, uova marce e, per questo furono puniti, a distanza di poco tempo, con la morte.

IL PRIMO ATTO DI GUERRA
Quello fu il primo atto di guerra tra due famiglie, due fazioni che cominciavano a contendersi il controllo del territorio e quello che esso comporta: prima, molto prima, le guardianie e gli abigeati; successivamente i taglieggiamenti ai proprietari terrieri ed ai commercianti; subito dopo, i sequestri di persona. Fino ad arrivare, e siamo a giorni nostri, al commercio della droga e delle armi.
Un percorso durato più di trent’anni, lastricato di migliaia di morti ammazzati che, ha sempre visto lo Stato, titolare dell’ordine pubblico e democratico, titubante, attendista, mai deciso a contestarlo veramente e stroncarlo.
Oggi la ‘ndrangheta è fortissima, ma, contrariamente a quanto pensano in tanti, non si considera uno stato nello Stato, o contro lo Stato, ma vuole sentirsi un pezzo di questo Stato che, quotidianamente, più quando vige la pax mafiosa, continua a mortificare, servendosene e spesso piegandolo ai suoi interessi, anche con la complicità di pezzi della politica. Ma lo Stato, appunto, quello che dovrebbe rappresentarci tutti, come risponde? “A colpi di dichiarazioni e comunicati stampa”, risponde, Luigi Sbarra, segretario della Cisl-Calabria.
La ‘ndrangheta non si può certo battere e vincere così. E neanche con le parate periodiche della commissione parlamentare antimafia. E, meno che mai, lasciando le forze dell’ordine senza i soldi per la benzina e con auto stravecchie che vanno fermandosi per strada. E, ancora meno, con gli appelli ai giovani meridionali e calabresi, perché, se ne tengano lontano, se, poi, a questi giovani, non si da alcuna altra possibilità di affermazione professionale e di avanzamento sociale.

CERCARE LE CAUSE REMOTE
Alla fine del 1989, a Reggio Calabria, si tenne, organizzata dal consiglio regionale, la terza conferenza sul teme: “Mafia Stato e società”. Uno dei documenti finali di quell’importante conferenza, a proposito della necessaria lotta alla mafia, diceva che “in primo luogo si impone un’analisi, non solo delle manifestazioni terminali della mafia, ma anche delle sue cause più remote e specifiche, a cominciare da quelle che interessano i settori dove sono impegnate direttamente le competenze degli istituti regionali e locali”.
E’ evidente che, il caso San Luca che allora impegnava per i reiterati e mai troppo vituperati sequestri di persona a scopo di estorsione, così come oggi impegna, specie dopo la strage di Duinsburg, pur nel contesto dei luoghi della mafiocrazia, deve costituire un test importante che non va, né sottovalutato, né trascurato, ma, anzi, va seriamente preso in carico e studiato a dovere, per farne, quindi, campo di intervento, non più sperimentale, ma fattuale ed operativo.

INTERVENIRE CON DECISIONE
Al punto in cui siamo, è necessario intervenire, per una volta, con decisione e urgenza. Occorre, finalmente, testimoniare con i fatti, alla stragrande maggioranza degli stessi sanluchesi, ma a tutti i calabresi ed agli italiani più in generale, che lo Stato esiste e  non veste sempre la divisa di ordinanza, o i travestimenti dei corpi speciali e che esiste, ancora, la Regione, pur se non può più fare assunzioni nella Forestale. Occorre che, l’uno, lo Stato e l’altra, la Regione, siano capaci di dare fiducia con le opere di civiltà e di progresso, a comunità, come quelle di San Luca, Platì, Africo e tante altre in Calabria, che, questo volto, dell’uno e dell’altra, non hanno mai conosciuto, o hanno intravisto, spesso soltanto con promesse, nei periodi preelettorali, poi sistematicamente inevase.
Certo, al giornalista riesce più facile la denuncia ed è proprio della professione giornalistica, analizzare i fatti e lasciare ad altri, la Politica?, la seconda, più difficile parte che attiene all’indicazione dei rimedi e delle cure.
Ma nel caso specifico, di San Luca e delle altre zone della Calabria pure citate, sono così vaste e macroscopiche le assenze del passato ed anche del presente che, anche a chi scrive, può riuscire facile dare qualche indicazione, se pure di larga masima.
E, per tentare, appunto, di fornire, anche se schematicamente, qualche indicazione terapeutica, partirò proprio dal fondo: San Luca, ha, intanto, necessità che, la scuola dell’obbligo sia, per tutti, a tempo pieno e che, i luoghi della scuola, a costo di ristrutturarli una volta l’anno, siano veramente moderni, attrezzati, confortevoli, con palestre, impianti sportivi, giardini, sale sociali e quant’altro. I dirigenti scolastici, poi, ai vari livelli, devono far legare, dal personale docente, alla didattica dei programmi scolastici, i problemi della civiltà, dell’educazione civica ed alla legalità, formulati e proposti, in modo tale, da far trovare i necessari riscontri, fuori dalle aule, per le strade e nelle piazze del paese. Occorre, poi, che, almeno due centri sociali, svolgano, per i giovani più grandi e per gli adulti, attività di animazione quotidiana.
Accanto a queste iniziative, che definirò laiche, non starebbero, poi, male iniziative di vivificazione della Chiesa che, a San Luca, può veramente dimostrare di voler contribuire, con i fatti, come pure, sotto la spinta del vescovo Brigantini, si sta tentando di fare, per concretizzare, nell’azione, e superare, con l’operatività propria, almeno alcune delle carenze rilevate e denunciate, in questi ultimi vent’anni, nei vari documenti della Cec (Conferenza episcopale calabrese). San Luca può essere, anche per i vescovi(e non per il solo Brigantini), un campo di sperimentazione dove, però, deve esercitarsi, primariamente, l’opera e l’intervento dello Stato, della Regione e delle altre istituzioni, fino al comune.
Queste, pur minime direttrici di intervento, erano state avanzate, da chi scrive, all’inizio del 1990, quasi venti anni fa. Se ora, a distanza di tanto tempo, si è costretti a tornare sugli stessi argomenti, perché, ancora oggi, si è quasi all’anno zero, vuol dire che, in questo ampio lasso di tempo, o non si è fatto niente, o si è fatto troppo poco e, quel poco, lo si è fatto male.
San Luca, come gli altri, troppi luoghi della mafiocrazia, ha necessità di interventi mirati e pesanti, straordinari: bisogna rompere l’isolamento, non solo mentale, ma anche fisico di quelle popolazioni e di quei luoghi. E tutto questo, se veramente si vuole affrontare il problema, va fatto bene e con urgenza.
E’ evidente che, mille altre cose, politici ed esperti saranno in grado di indicare come fattibili e produttive per lo scopo.
A chi scrive, dopo aver tanto riflettuto e tanto parlato e discusso di San Luca, anche con gli stessi sanluchesi, una cosa appare certa, tra le tante dubbie: bisogna evitare di spingere oltre, la generalizzata criminalizzazione e colpevolizzazione come, purtroppo, con troppa faciloneria e senza calcolare le conseguenze nefaste di ciò che si andava procurando, si è fatto in questi ultimi decenni e fino ad ora.
Mi tornano in mente, a questo proposito, le ultime parole di Cavour morente, così come riportate in un vecchio testo sul Risorgimento di Francesco Traniello e Gianni Sofri. “Siamo tutti italiani – facevano dire i due storici al grande statista piemontese – ma ci sono anche i meridionali. Ah c’è molta corruzione laggiù. Non è colpa loro, povera gente, sono stati così mal governati. (…)Bisogna moralizzare il paese, educare i bambini e i giovani, fondare asili, aprire collegi militari. Ma non si pensi che insultando i meridionali riusciremo a modificarli. Domandano impieghi, onorificenze, promozioni. Lavorino, siano onesti e darò loro impieghi, onorificenze, promozioni, ma soprattutto non lasciargliene passare nessuna: l’impiegato non deve essere sfiorato da nessun sospetto. Niente stato d’assedio. Io governerò con la libertà”.
Quando, Romano Prodi, da poco eletto alla guida del governo di centrosinistra, scese in Calabria, dopo la bieca uccisione del povero, Franco Fortugno, parlando a Locri, in Piazza dei Martiri, disse che la Calabria era la sua “regione prediletta”. La regione, cioè, da lui amata più di ogni altra. Quell’affermazione, nonostante le grandi delusioni del passato, riaprì i cuori di tantissimi calabresi a nuova speranza. I calabresi e, con loro, massime, i sanlcoti, gli africoti ed i platioti, non si aspettavano, certamente, le “onorificenze e le promozioni” di cui, a suo tempo, ed anche egli vanamente, aveva parlato Cavour. Si aspettavano, però, dopo un secolo e mezzo, quell’attenzione  che era mancata un secolo e mezzo prima. Ma, ad oggi, neanche quell’attenzione si è vista. Si sono, invece, continuate a vedere e sentire, proprio come ai tempi di Cavour, gli insulti delle operazioni di polizia notturne ed indiscriminate. Sono continuati  gli “insulti” che, Cavour diceva che bisognava evitare, per far spazio alla moralizzazione dei bambini e dei giovani. Ed a San Luca, come negli altri luoghi della mafiocrazia, a distanza di quasi un secolo, si deve continuare a ripetere quello che, Corrado Alvaro, scriveva dei suoi paesani: “Non è facile la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno”. E continua a facile non esserlo, non solo in Aspromonte, ma in ogni plaga di questa povera Calabria, regione “prediletta”, a parole, da sempre e da tutti i governanti, ma, sempre e da sempre, dimenticata dai governanti di Roma ed anche, e questo è molto più grave, fino a rasentare l’imperdonabilità, da quelli della stessa Calabria.
                             
(03.11.2007)Salvatore Santagata