Caro Veronesi, il solo “fine pena mai” è quello delle vittime

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Caro Veronesi, il solo “fine pena mai” è quello delle vittime

Perché la proposta di abolire l’ergastolo non mi convince né mi trova d’accordo. L’umanità con cui deve essere trattato il detenuto non può essere confusa con un giustificazionismo sui disagi ambientali che condizionerebbero alla commissione del reato

«Ecco allora che capire, prima di punire, diventa necessario per rimuovere le cause che sono alla radice dei conflitti e dei comportamenti criminali. L’Italia è l’unico Paese ad avere introdotto, nel 1992, l’ergastolo ostativo (il fine pena mai) per i condannati particolarmente pericolosi, come i mafiosi responsabili di omicidi. Possiamo obiettivamente affermare di avere così ridotto il potere delle mafie? Io credo di no. Allora aboliamo l’ergastolo e avviciniamoci a una giustizia che possa fare del nostro Paese un modello avanzato di civiltà». Umberto Veronesi chiude così il suo pezzo apparso oggi su La Stampa. Come se il nostro obiettivo fosse quello di diventare un modello avanzato. Come se non fossimo il Paese più deriso tra quelli occidentali “che contano”. Come se a nessuno fosse capitato, varcando i confini, di sentirsi ripetere quella bella frasetta – “tutti mafiosi” – come conseguenza necessaria dell’essere “italiani”.

Non voglio parlare di teoria della pena. Non voglio ricordare che, dovendo scegliere tra le due opposte concezioni – funzione retributiva o preventiva della pena -, il nostro Codice penale ha adottato la soluzione del c.d. doppio binario: ai rei sono applicate congiuntamente pene per la retribuzione del fatto commesso e misure di sicurezza per la neutralizzazione della loro pericolosità sociale. Non voglio neppure evidenziare che per eliminare la radice del problema – le carceri sovraffollate – non basterebbero tutti gli indulti o le amnistie del mondo. Preferisco non ricordare che orami sono davvero pochi i condannati che scontano in toto la pena di condanna di reclusione a vita (30 anni con gli sconti diventano molti, molti di meno). Men che meno ho l’ardire di entrare nel merito della giustizia kantiana di cui in apertura, una giustizia che trascende il piano giuridico e va a braccetto con il cielo stellato sopra e la legge morale dentro.

Però questa esternazione dell’ex ministro, ex senatore, oncologo, sostenitore internazionale delle battaglie più eterogenee (contro lo sciopero dei medici, per la prevenzione tumorale, contro il consumo di carne, per aborto, eutanasia e droghe leggere, contro le sperimentazioni sugli animali, per gli inceneritori dei rifiuti, contro le tossine della polenta e delle patate, per gli ogm, etc.), mi ha fatto diventare il giustizialista che non sono. Neppure un anarchico della giustizia come me può accettare la scioltezza con cui Veronesi ci spiega che l’ergastolo impedisce il ravvedimento dell’assassino, togliendogli un futuro, per colpe non proprie, ma, «nella maggior parte dei casi» di «cause ambientali, come il disagio sociale o la povertà», o «violenze e abusi subite durante l’infanzia».

Parla di fine pena mai, il professore che negli anni Ottanta venne chiamato da Bettino Craxi a far parte dell’assemblea nazione del Psi, senza ricordare che in Italia esiste un solo «fine pena mai»: quello dei familiari delle vittime innocenti. Che non hanno desideri di vendetta, come farebbe intendere Veronesi, ma di giustizia. Quella giustizia che persino Gandhi, cui si ispira il suo ragionamento, definiva “tutto”: «La giustizia nei confronti dell’individuo, fosse anche il più umile, è tutto. Il resto viene dopo». Il resto è secondario al vero, unico «fine pena mai»: il dolore inappellabile, definitivo, per cui non esistono sconti né provvedimenti di clemenza in grado di restituire la vita tolta, arbitrariamente, da “persone” colpite da delirio di onnipotenza. Quel «fine pena mai» dovrebbe appartenere a ciascuno di noi. Solo così potremmo definirci un modello avanzato di civiltà. Con tanto di ergastolo ostativo previsto e applicato, nei tribunali e nelle carceri.