A Rosarno 20 anni di soprusi sui neri

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20 anni di soprusi a Rosarno sui neri


ROSARNO –  Che la ‘ndrangheta sia lì, attorno ai campi dove si raccolgono arance e mandarini, senza neanche il fastidio di nascondersi, è cosa risaputa. E che a sparare contro i neri ridotti in schiavitù siano sempre loro delle ‘ndrine, affinché “gli schiavi” si pieghino alle condizioni disumane alle quali sono costrettti e non si azzardino a protestare, è altrettanto noto. Ma poi è di dominio pubblico anche il fatto che le fucilate contro gruppi di immigrati, non sono soltanto un “gioioso passatempo” dei rampolli della mafia, che sparano per “farsi le ossa” e farsi conoscere, ma rappresentano una strategia terroristica che a Rosarno funziona dal 1990, fin dai primi flussi migratori dei manovali provenienti dall’Africa. Tutto nell’indifferenza generale.

“Arance insanguinate”. E’ il titolo di un dossier che “DaSud” Onlus ha presentato a Reggio Calabria e a Lamezia Terme ad una delegazione del Parlamento Europeo e di cui si parlerà a Roma – al cinema L’Aquila, giovedì prossimo – durante un meeting di tutte le associazione antirazziste. Si tratta di un lavoro che serve a far conoscere  il tragitto e l’evoluzione negli ultimi vent’anni, di una tragedia di dimensione nazionale, che ha suscitato attenzione mediatica solo quando è esplosa come problema di ordine pubblico, la notte dell’8 gennaio scorso, quando su un gruppo di “schiavi africani” c’è stato l’ennesimo “tiro a segno”, al quale gli immigrati hanno reagito con una vera e propria rivolta. Tutti erano sopravvivevano come animali in una ex cartiera, costruita con i soldi truffati alla Ue e poi  abbandonata.


Un bollettino di guerra.
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Il dossier, dunque, vuole dimostrare che a Rosarno la caccia ai neri africani è cosa vecchia, uno “sport” cominciato vent’anni fa. Il dossier fa un bilancio, che somiglia ad un bollettino di guerra: diversi i morti, decine e decine i feriti. Episodi che vengono riportati alla memoria, per dimostrare l’estrema gravità del problema. Si ricorda, ad esempio, la strage dell’11 febbraio del ’92, quando vennero assassinati due cittadini algerini uccisi a revolverate nelle campagne della Piana di gioia Tauro. Si ricostruisce l’altra aggressione del febbraio del ’94, quando due ragazzi della Costa d’Avorio furono feriti a fucilate e il corpo di un loro connazionale in avanzato stato di decomposizione, anche lui bersaglio dei mafiosi, fu trovato due anni più tardi. Gli autori del dossier si domandano, a questo punto, chissà quanti altri morti potrebbero essere ritrovati e  quanti altri ancora, che nessuno cerca, che fine hanno fatto. “Una guerra, da sempre legata al racket dello sfruttamento delle braccia  –  si legge nel dossier –  che ha nelle rivolte del 2009 e del 2010 due momenti intensi di una lunga e ventennale spirale di violenza. Morti dimenticati. Colpevolmente”.

Il doppio volto di Rosarno. Il dossier di “daSud” mette in evidenza anche il “doppio volto di Rosarno” e, più in generale, della Piana di Gioia Tauro. Terra di contraddizioni profonde, dove spadroneggiano ferocissime ‘ndrine, ma dove si sono anche sviluppate grandi battaglie civili. Perché se è vero  che per anni le cosche hanno terrorizzato gli stranieri per schiavizzarli, è altrettanto vero che dai primi anni 90 il movimento del volontariato laico e cattolico è stato presente e s’è impegnato per aiutare gli immigrati. Ogni volta che c’è stata una violenza è seguita una reazione della società civile. Non solo, ma Rosarno è anche tra i centri calabresi dove è stato realizzato un sistema d’accoglienza con specifiche politiche di sostegno ai migranti, fin dal ’95. E qui il dossier ricorda  grazie il contributo del combattivo sindaco Peppino Lavorato, storico militante del Pci, che riuscì durante i suoi due mandati ad arginare la ‘ndrangheta, col sostegno del mondo del volontariato.

Il lungo “tiro a segno” dal ’90 in poi. La sera del 10 settembre ’90 viene gambizzato a revolverate Mohamed El Sadki, 28 anni. Stessa sorte, un anno dopo, il 23 dicembre del ’91, all’algerino Mohammed Zerivi, di 24 anni. Il 27 gennaio del ’92 altri due giovani algerini, Malit Abykzinh, di 24 anni e Boumtl Rabah, di 27 anni, trovano sulla porta di casa dei ladri che stanno forzando la porta dell’appartamento con una sbarra di ferro. Sorpresi dagli africani, gli scassinatori reagiscono sparando: il più giovane finisce in ospedale con ferite gravissime all’addome, l’altro con una mano trapassata dai proiettili. È solo uno dei tanti episodi che si verificano in quel periodo.

Decine e decine di aggressioni. Numerosi atti di violenza sono passati sotto silenzio. Ma perché si andava a rubare in quelle case poverissime? Perché quelle sparatorie? A volte si trattava di vere e proprie di rapine, per togliere quel po’ di soldi che gli immigrati riuscivano a guadagnare dopo 16-18 ore di lavoro per 25 euro. A volte erano intimidazioni, altre volte razzismo allo stato puro. C’è solo una regola: i neri devono subire in silenzio perché capiscano chi comanda da queste parti. Nel 1992 ecco i primi due morti. A fine gennaio l’arresto di un giovane del paese per le rapine agli africani fa salire la  tensione. Così come le risse tra africani in paese. Sono di nuovo gli algerini il bersaglio delle fucilate e delle revolverate. Tre di loro vengono avvicinati nella notte dell’11 febbraio del ’92 nelle strade di Rosarno. Un uomo gli propone un lavoro in campagna e li fanno salire in auto. È una trappola. Arrivati in una zona isolata, lungo la strada per Laureana di Borrello, località Scattareggia, gli sparano addosso. Due muoiono sul colpo  –  Abdelgani Abid e Sari Mabini, di 20 anni – il terzo, Murad Misichesh, 19 anni,  riesce a scappare, ferito al collo.

La lunga scia di sangue sulla Piana. Il 18 febbraio del ’94 tocca Mourou Kouakau Sinan, 41 anni, della Costa d’Avorio, preso a fucilate assieme a Bama Moussa, di 29 anni, ed Homade Sare, di 31, tutti del Burkina Faso. Il primo mure lì, per strada, colpito in pieno petto, gli altri due sono feriti lievemente. Ma nel ’94 cominciano ad avere paura le cosche che approfittando della notte del Capodanno successivo per lanciare una offensiva in “stile colombiano”, con mitragliate contro il Comune e le scuole pubbliche. Botti densi di avvertimenti minacciosi, che si ripeteranno nel tempo. Ma il 6 gennaio del ’95 scatta la voglia di reagire all’aggressione mafiosa. Il Comune comincia la distribuzione di pasti caldi per gli immigrati. Si diffonde un’allegria tra braccianti bianchi e neri, che organizzano danze, coinvolgendo tutta la città. Ma le violenze proseguono.

Ma le arance non piovono dal cielo. Nell’ottobre del ’96, un altro morto, un africano di 25-30 anni ritrovato in mezzo alla campagna di Laureana di Borrello, in stato di decomposizione. Impossibile scoprirne l’identità: nessuno lo ha mai cercato. La lunga catena di aggressioni e attentati arriva fino ai giorni nostri. Fino alla rivolta dell’8 gennaio scorso, quando la soluzione più giusta sembra essere quella di deportare “gli schiavi” , senza distinguere i richiedenti asilo politico, dai clandestini persino quelli che da anni – sempre clandestinamente – raccoglievano frutta dagli alberi, “ingranaggi di un volano” che ha arricchito l’economia locale. “Perché le arance e i mandarini, non piovono dal cielo”, si legge nel dossier.