PROCESSO CONGIUSTA SCARFO’ RISCHIA LA DENUNCIA PER FALSA TESTIMONIANZA

Print Friendly, PDF & Email

Locri.  Contraddizioni e tanti “non ricordo” del futuro suocero di Gianluca Congiusta
Scarfò rischia la denuncia

Muscolo: «Può incorrere in falsa testimonianza»

                                         L’Industriale antonio scarfo

 

di PINO LOMBARDO per il Quotidiano 

LOCRI – Antonio Scarfò, futuro suocero di Gianluca Congiusta, il giovane imprenditore sidernese assassinato la sera del 31 maggio 2005, sapeva sia dell’esistenza della lettera estorsiva inviatagli dalle carceri di Palmi da Tommaso Costa, sia che nella missiva era indicato il suo nome come ispiratore.

 

L’imprenditore sidernese, inoltre, non ha escluso che i danneggiamenti da lui subiti fossero collegati alla sua attività di imprenditore. “Che dovevo collegare? -ha risposto alle domande dell’avvocatessa Tripodi, legale di Tommaso Costa, finalizzate a sapere se chi ha commesso i furti di attrezzature nell’azienda di Locri avesse o meno intenzione di condizionarne l’attività – quando uno subisce un furto che deve collegare?. Quello che posso dire e che li hanno rubati, per cosa lo abbiano fatto non lo so”. Così come ha continuato a non escludere che l’assassinio di Gianluca Congiusta possa essere collegato alle minacce da lui subite ed all’arrivo di quella lettera estorsiva. “Io non escludo nulla e non includo nulla. Sono fatti accaduti. Io ho detto che Gianluca si è interposto per difendere la famiglia della fidanzata”. Queste, insieme alla decisione assunta dalla Corte di formulare, a conclusione della fase dibattimentale, al teste Antonio Scarfò, alcune domande poste nel “memoriale” scritto da Tommaso Costa e ricevuto dalla Corte lo scorso 13 novembre, e che ieri aveva iniziato a porre l’avvocato di parte civile Giuseppe Femia, le “novità” fondamentali dell’udienza tenutasi ieri in Corte d’Assise di Locri presieduta dal giudice Bruno Muscolo con a latere il togato Frabotta, nell’ambito del procedimento penale che vede sul banco degli imputati Tommaso Costa e Giuseppe Curciarello.
 
L’audizione di Scarfò ha fatto registrare ieri il cliché registrato nell’udienza precedente. Le domande che gli avvocati di parte civile (Macrì, Femia, Sgambelluri, Romeo e Riccio), formulavano all’imprenditore e, successivamente, quelle poste  dalla legale di Tommaso Costa, Tripodi, non ricevevano risposte considerate “logiche” e “convincenti”. I troppi “non ricordo” ed i “non so spiegare il perché”, utilizzati dal teste per “dribblare” le domande che gli venivano rivolte stimolavano il presidente Muscolo ad ammonire il teste ricordandogli non solo che aveva l’obbligo di dire la verità ma anche che poteva incorrere nel reato di falsa testimonianza. Ma andiamo con ordine.
L’udienza si apriva con le contestazione  formulate al teste da parte del sostituto procuratore della Dda reggina, Antonio De Bernardo, circa il periodo in cui venne a conoscenza della missiva estorsiva che aveva preso la moglie, Scarfò, ieri chiariva non solo che lui aveva scoperto dell’esistenza di quella lettera soltanto dopo la morte di Gianluca Congiusta e comunque entro il 2005, ma anche che la moglie, con la quale ne aveva parlato “due o tre volte”, gli aveva sintetizzato il contenuto e detto che nella missiva era indicato il nome di Tommaso Costa.

Poi iniziava il controesame delle parti civili. Per primo, Francesco Macrì, nominato dai comuni della Locride a tutela della loro immagine e degli interessi di tutti gli operatori economici del territorio taglieggiati dalle estorsioni dei clan. Le domande del legale,così come quelle degli altri legali di parte civile, erano tutte finalizzate a sapere come mai l’imprenditore Scarfò, assertore del principio che non si chiedono e non si pagano “servizi “ di protezione ai mafiosi, e che aveva denunciato, “contro ignoti”,  tutte le minacce e i danneggiamenti subiti dal 1999 in poi, stranamente abbia omesso di denunciare due importanti episodi intimidatori.
La telefonata minatoria, annunciante l’arrivo “di un regalo per Natale”, ricevuta dalla moglie sul proprio cellulare e soprattutto la lettera estorsiva, indirizzata a lui e ricevuta  sempre dalla moglie qualche settimana dopo quella telefonata ed alcuni giorni prima del natale 2003. La meraviglia dei legali nasceva dalla circostanza che quella missiva fosse “l’unica  a contenere il nome” dell’ipotetico estortore. Scarfò non ha saputo spiegare il “perchè” non l’abbia fatto. Si è trincerato dietro “quale lettera?, la lettera l’aveva strappata mia moglie”. L’imprenditore incalzato dalle domande aveva anche un momento di sfogo che lo portavano ad affermare di non aver sentito l’esigenza di parlare della lettera quando venne sentito presso il commissariato di Siderno, dal momento che si sarebbe “irrigidito” a causa della “domanda a freddo” postagli che gli chiedeva  di dire chi avesse ucciso Gianluca Congiusta.
La testimonianza di Scarfò continuerà il prossimo 12 gennaio.