La giustizia che dimentica le vittime dei reati

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La giustizia che dimentica le vittime
i Federico Guiglia – lunedì 13 agosto 2007, 07:00

 Quando arriva la notizia, e sempre arriva, che le carceri straboccano di detenuti, il riflesso condizionato della politica non è quello di costruire nuovi penitenziari; ma di ricorrere all’indulto.

·               Quando il giornalista di turno intervista i familiari di una persona sequestrata e appena liberata, oppure al contrario uccisa, l’immancabile domanda è se essi «abbiano perdonato» gli autori del delitto. Quando, infine, s’affrontano i grandi e drammatici gialli del nostro tempo, ossia crimini della più varia natura, raramente accade che queste vicende acquistino il nome della vittima, per essere sinteticamente indicate e pubblicamente dibattute. Non esiste, per intenderci, un «caso Samuele»; esiste il «caso Cogne». Si indaga o si riflette sul «caso di Erika e Omar»; non sul «fratellino» di lei, Gianluca, o sulla mamma Susy, vittime i cui nomi nessuno ricorda. Del resto, quante volte il «caso Calabresi» s’è trasformato in un «caso Sofri»? Si adotta il toponimo del delitto o il nome dell’imputato, anziché quello della vittima considerata, vista come un aspetto non centrale del giudizio. Una parte in causa, ma irrilevante. A tal punto irrilevante, che può accadere che di un condannato con sentenza definitiva, per anni si continui a chiedere: «E se fosse innocente?». Poco male, se però tale encomiabile principio si applicasse anche nell’ipotesi opposta, cioè se a proposito di persone assolte per delitti di sangue, qualcuno alla fine domandasse, e per anni: «E se fosse colpevole?».
La «sete di verità» non contempla la par condicio neppure dopo che tale verità è stata accertata in pubblico dibattimento con tre gradi di giudizio: il pregiudizio è sempre a favore dell’innocenza e mai della colpa, quasi che il male e la responsabilità di chi lo procura non appartenessero a questo mondo di anime solo candide. E allora non ci si prende neanche cura di ricordare il nome della vittima del reato come invece succede, quasi sempre, negli Stati Uniti. O in quei Paesi per i quali l’attenzione verso la vittima del reato viene moralmente, e dunque lessicalmente percepita almeno sullo stesso piano di quella da rivolgere all’imputato. Altrove l’interesse a «fare giustizia» è avvertito anche come il modo più equo possibile per risarcire, con quel poco che può risarcire la legge degli uomini, un torto gravissimo e spesso inconsolabile per chi l’ha subìto, o per chi è rimasto da solo a piangerlo.