Il reportage. Elezioni nulle nel Comune già sciolto tre volte per ‘ndrangheta. Gli inquirenti: “Non potendo più scegliere uno dei loro, non hanno scelto”. E ora arriverà un nuovo commissario
di CONCHITA SANNINO
ROCCAFORTE DEL GRECO (Reggio Calabria)– Ci sono solo vecchi che salgono cauti e bambini che corrono troppo a Vunì, il paese che dorme, e che ha chiuso allo Stato.
Sono gli stessi abitanti, 545 cristiani in tutto, oltre a una cinquantina tra pecore, capre e maiali, che tra qualche giorno saluteranno a distanza il commissario che la Prefettura di Reggio Calabria avrà inviato quassù per la quinta volta in 17 anni. Elezioni nulle a Roccaforte del Greco, a mille metri sull’Aspromonte. Hanno votato solo in 54 su 522, alle recenti amministrative. Quorum bloccato sul 10 per cento. E il candidato sindaco era solo uno, un trentenne della Fiamma Tricolore, Giuseppe Minnella. Il commissario resterà in carica 18 mesi, poi si andrà di nuovo alle (odiate) urne. Comune vuoto, di nuovo, dopo tre scioglimenti per infiltrazioni di ‘ndrangheta. Stavolta, per astensione vendicativa.
“Ma se non votano a Roma è normale sfiducia, e qui invece diventa un ordine di mafia?”, ti sfotte qualche testa più accesa al bar di via Roma, ritrovo per soli uomini, quasi tutti operai del vecchio carrozzone dei forestali dell’Afor, facce cotte di sole e ventri gonfi di bevute. Poco più a valle, nella chiesa dello Spirito Santo, la Provvidenza compensa con brutti scherzi: ha mandato un prete-ragazzino, don Armando Turoni, 29 anni, al volante di una Qashqai. È il parroco che fa su e giù anche con la neve, si batte quando un medico non arriva, quando l’acqua la staccano “anche in estate e non si sa perché”, o quando hanno chiuso l’asilo e lui ha fatto entrare bimbi di 4 anni al catechismo, a fare “Gioca e colora con la Bibbia”. “La gente da queste parti è stata lasciata sola. Restano tanti posti da riqualificare, ma il paese sta finendo. Eppure io qui sto bene, ho sempre chiesto al Signore di mandarmi in un posto dove si è utili, la città mi stanca”. Don Armando è riuscito a non arrabbiarsi neanche quando sei di quelli “che corrono troppo”, di fronte al diniego di usare l’oratorio di sera, hanno scavalcato, rotto i vetri e preso possesso.
Eccola Roccaforte. Vunì, Roccia in lingua grecanica – il nome antico e secco con cui gli anziani riconoscono questo luogo – ha dettato ancora la sua legge? “Non potendosi più scegliere uno dei loro, non hanno scelto”, analizzano gli inquirenti. Replicano loro: “Non potevamo votarlo, quello. Siamo sempre stati di sinistra, qui”. Già: qui, dove si porta il lutto di agguati feroci e si campava senza pagare tasse. Dove negli anni Novanta si scatenò la terribile faida di Roghudi, quasi 50 morti tra il clan Zavettieri e quello dei Pangallo-Maesano-Favasuli. Dove una notte affondarono il tetto di una casa con una bomba di ‘ndrangheta solo per stanare Antonino “Chiumbino” Pangallo, ma colpirono il fratello e accecarono sua madre. E tutto quel sangue – saldato alla fine dalla mediazione dell’astutissimo Peppe Morabito, il boss “Tiradrittu” – per colpa della mancata elezione di uno ‘ndranghetista come dodicesimo consigliere comunale a Roccaforte. Era il giugno ’92. Ventun anni dopo, il divorzio tra loro e lo Stato è compiuto. E nessuno può dire se abbia pesato di più la reiterata pericolosità dei primi, o la distanza siderale del secondo. La falce dello scioglimento ha già colpito il Comune nel ’96, nel 2003 e nel 2011. Sempre per evidenti, clamorose anomalie. Un figlio del boss Sebastiano Zavettieri, Mario, assunto come tecnico comunale. Le ditte appaltatrici dei lavori in mano alle cosche. Le gare truccate. Le assunzioni fuorilegge di dirigenti. Per non dire della mancata “riscossione dei tributi, nella misura del 100 per cento” dei canoni idrici o dei rifiuti. Eppure, c’è chi rimpiange l’ultimo sindaco eletto, e rimosso, Ercole Nucera. “Aveva portato pure assessori donne”, ricorda Antonino. E Pietro ride: “Come no! Non contavano niente”.
Le donne, curve sotto la tramontana anche a maggio, alle sei si ritirano. Ma al bar i mariti ti offrono il caffè, sotto una Madonna ingiallita. “I commissari prefettizi non hanno mai fatto niente di buono”, ti spiega Rocco, pensionato, 59 anni. “Se siamo tutti ‘ndranghetisti, che ci andiamo a fare a votare? Pure questo candidato ci ha chiamati su Facebook “comunisti mafiosi””, aggiunge Antonino Romeo. “E poi, siamo tutti imparentati, buoni e cattivi”, confessa Salvatore Palami. “Sempre socialista sono stata, non potevo votare per un fascista”, taglia corto Bruna Palamara, 88 anni. Solo Mimmo Iaria, 69 anni, cerca consenso: “Io ho votato. Questo è il paese del partigiano Pietro Perpiglia, il voto è un diritto”. Ma un altro Pietro, 60 anni, che si fa chiamare “il poeta”, accompagnatore di Gerhard Rohlfs quando il filologo tedesco saliva a Roccaforte, oggi rivendica: “Magari ci fosse la vecchia ‘ndrangheta. Ma non quella del sangue, quella del cervello. Adesso chiedono ‘u pizzu perfino al marocchino che mette la bancarella”. La vecchia ‘ndrangheta, in effetti, qui può contare su qualche fedelissimo, ma si gonfia altrove. Le ex malepiante di Roccaforte agiscono molto vicino, nel porto di Gioia Tauro, in buona parte in mano a miliardari narcos, oppure molto lontano: da Bogotà a Domodossola, da Milano alla Germania. Trapianti acquisiti, scritti in migliaia di pagine dell’antimafia, da polizia e carabinieri. “Qui ci potremmo gemellare con i casalesi”, ironizza Antonio Sgro, mentre si chiude in auto. E chissà se è un caso che, a un’ora e mezza da qui, sia arrivato come procuratore capo di Reggio il magistrato che iniziò la battaglia contro Gomorra, Federico Cafiero de Raho.
Ma l’antimafia, vista dal bar, è lontana come il mare. Il paese si spopola di uno o due nuclei l’anno. I bambini sono rimasti in venti. La caserma dell’Arma di Roccaforte, unico posto dove si parla italiano, tiene anche questo conto. E il resto è esistente ma (quasi) morto. Come altri simboli. Come l’enorme ciminiera del centro siderurgico di Saline Joniche che incroci lungo la strada: mai entrato in funzione. Come il porto dello stesso comune, costruito “contro sabbia”: inutilizzato. Come la stessa Diga del Menta, costata 300 milioni e ancora incapace di portare acqua su questi tornanti. Come le viuzze sbriciolate di Vunì. Pietre sospese tra cielo e terra. ” “Siamo un paese che dorme, altro che elezioni”, sorride Pietro il poeta.
fonte: la repubblica.it