“Io, emigrato in Germania, prigioniero e schiavo della mafia”

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cameriere

Ricattato, sottopagato e umiliato. Ecco la vicenda di un ragazzo milanese che per scappare dalla crisi ha cercato fortuna all’estero. Finendo però vittima di una società compromessa con la ‘ndrangheta calabrese

Federico aveva 22 anni quando da Milano partì per la Germania. Era il 2011, Berlusconi capitolava, l’Italia sembrava sull’orlo del baratro e il paese della Merkel veniva descritto come un Eldorado.

Forti di questi racconti, migliaia di ragazzi lasciarono il Belpaese per il mercato tedesco. Per alcuni è stato l’inizio di una storia felice, per Federico invece l’ingresso in un mondo con  molte zone di contatto con la criminalità organizzata.

“Sono partito a novembre per andare a Costanza, nella regione di Stoccarda, ai confini con la Svizzera”, racconta oggi Federico. “Come prima cosa ho cercato un appoggio presso la comunità locale di connazionali, convinto di potere trovare qualcuno che mi avrebbe aiutato per senso di appartenenza e solidarietà. E, in effetti, alla prima porta alla quale ho bussato la risposta è stata positiva. Era uno dei tanti ristoratori italiani. Mi prese a lavorare in nero come cameriere e mi offrì una sistemazione. Mi sembrava l’ideale per iniziare”.

Il sogno di riscoprire all’estero quella solidarietà tra italiani che non trovava in patria si è però rapidamente infranto. “Mi resi subito conto che la situazione non era come mi aspettavo. Venni sistemato in una stanza da condividere con altre otto persone, tutti ragazzi italiani o albanesi che facevano i camerieri o i cuochi nei ristoranti italiani della città”. Secondo una legge regionale del Land Baden-Württemberg, in cui Costanza si trova, per avere un regolare contratto di lavoro è necessario avere un contratto d’affitto. Chi risulta senza fissa dimora non ha alcuna possibilità di lavorare se non per gli unici che assumano in nero: gli italiani.  

“La mattina ci svegliavamo e andavamo a lavorare, ognuno per il proprio locale. Avevamo un solo mazzo di chiavi da condividere in nove persone, che era sempre in mano allo stesso ragazzo. I datori di lavoro erano apparentemente persone diverse, ma si conoscevano tutte e si spartivano, oltre che i camerieri, anche il controllo delle diverse attività italiane della zona. In caso di problemi con uno di loro si avevano problemi con tutti”.

Per ‘problemi’ Federico intende la rivendicazione dei propri diritti: lavorare non oltre le otto ore al giorno, avere gli straordinari pagati, avere uno stipendio fisso. Cosa che però non gli era garantita. «Quando si parlava di stipendio il ‘padrone’  diceva che ne avremmo parlato più avanti e se gli facevo presente che la sistemazione non era ottimale lui mi rispondeva che se non mi andava bene potevo anche andarmene a dormire per strada. I soldi, dunque, me li dava quando voleva lui e quanti voleva lui. Quando ho provato a ribellarmi e sono andato a bussare alla porta di altri ristoranti italiani sono stato mandato via malamente. Ero di proprietà del mio ‘padrone’ e gli altri non mi avrebbero mai accettato. I datori di lavoro non-italiani, invece, volevano vedere un contratto d’affitto che non avevo e di conseguenza mi trovavo costretto ad accettare qualsiasi cosa».

Così Federico ha scoperto che la Germania non era il paradiso che aveva creduto. Scappato dall’Italia per trovare una sistemazione, si era ritrovato vittima di rapporti di dipendenza personale regolati da ricatti e minacce contro chi si ribellava, bollato come ‘infame’.
“Tutta questa situazione contrastava nettamente con il resto della società circostante, piena di studenti
Erasmus e turisti. Mi sono chiesto tante volte come fosse possibile che nessuno da fuori si accorgesse di come venivamo sfruttati”.  Allora Federico non poteva sapere che la polizia tedesca stava controllando la zona di Costanza e che la comunità italiana locale era sotto inchiesta per i suoi stretti legami con la criminalità organizzata di origine calabrese.

Costanza, la colonia delle ‘ndrine

Z: “Ascolta io volevo parlare con te per dirti una cosa… ma sono vere tutte le scemate che dicono per quel cornuto della Svizzera?”
N: “che cosa stanno dicendo?”
Z: “eh… dicono che vi siete litigati, vi siete litigati bene… e poi dicono che ti hanno dato uno schiaffo!”
N: “E se mai mi avesse dato uno schiaffo, gli avrei sparato!”

Questa telefonata intercettata non viene dalla Locride. E’ partita da Singen, cittadina alle porte di Costanza con  circa il 40 per cento degli immigrati calabresi. A parlare è Bruno Nesci, che rende conto al boss Domenico Oppedisano di Rosarno. Le intercettazioni mostrano i dissapori tra Nesci e la cosca rivale di Frauenfeld, nella vicina Svizzera. Perché il Sud della Germania e il Nord della Svizzera sono zone di colonizzazione da parte dei clan che, mimetizzandosi all’immigrazione di massa di origine calabrese iniziata negli anni ’50, hanno ricreato sul territorio logiche criminali facendo direttamente riferimento alle case-madri in Calabria.

A Costanza si fanno affari

Il Baden-Württemberg costituisce una forza economica trainante, per questo è stato oggetto di ingenti flussi migratori da parte di affiliati della ‘ndrangheta che hanno scelto di insediarsi sul territorio sfruttandone la sua posizione, che garantisce un facile accesso ai paesi confinanti. Essendo una cittadina sul confine tra Germania e Svizzera , è diventata una roccaforte strategica dei clan, una base logistica per il traffico di armi e di stupefacenti, per l’estorsione e soprattutto per il riciclaggio nel settore degli alberghi e della ristorazione.

E’ proprio in uno di questi ristoranti che Federico si trova a lavorare. Dall’esterno l’attività sembra completamente regolare, ma dal suo interno emerge un’altra realtà: i soldi sono ripuliti nelle attività legali, non producono allarme sociale e destano pochi sospetti. Dagli anni ’80 la ‘ndrangheta ricicla i profitti criminali in queste terre. Solo a Costanza e nei paesi limitrofi sono stati individuati cinque locali. La presenza dei clan è così capillare da comportare addirittura dei contrasti interni per la spartizione del territorio, che però vengono risolti grazie alla grande disponibilità di denaro. Peccato che a questa ricchezza contriuisca anche lo sfruttamento di Federico.

“Dovevo sottostare al volere del ‘padrone’. Ero completamente succube delle sue decisioni e vittima delle sue minacce. Ho pensato anche di denunciarlo alla polizia, ma ho avuto paura. La mia parola contro quella di tanti ristoratori italiani della città. Oltretutto nessuno dei miei coinquilini aveva fiducia nelle istituzioni tedesche, forse perché ci sentivamo intrappolati in un mondo invisibile lontano dalla Germania in cui vivevamo”.

Il nuovo inizio

Federico oggi non vive più a Costanza. Dopo sette mesi di schiavitù ha deciso di tornare a Milano, dove lavora come cuoco. Si è sposato e ha un bambino. «Quando penso al mio periodo in Germania ricordo la frustrazione che provavo nell’essere preso in giro da chi mi sfruttava. Il mio rimpianto più grande è quello di aver vissuto in un paese senza poterlo conoscere veramente».

«Mi sembra di essere rimasto imbrigliato in una rete che mi ha impedito di costruire il sogno che avevo. Il primo periodo di ritorno a Milano non è stato facile, perché sentivo di avere fallito. Poi però ho capito che con lo stesso impegno che avevo messo a Costanza, potevo lavorare qui e ho trovato la mia stabilità. Una cosa l’ho capita: nella vita non conta tanto dove tu sia, ma soprattutto l’impegno che ci metti».