Mafia, azione civile e futuro della Calabria di Emiliano Morrone

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Mafia, azione civile e futuro della Calabria di Emiliano Morrone

Emiliano Morrone

In Calabria si muore per un’appendicite, un parto, una parola di troppo. Si muore di rassegnazione, impotenza, silenzio, solitudine. Qui si muore di lontananza dal resto dell’Italia e del mondo, perché la storia di questa terra rimane nell’ombra.

Nessuno, nel Nord produttivo, racconta insieme la Kroton (Crotone) di Pitagora e la provincia odierna dei bazooka che squarciano le blindate. Nessuno, fuori dei nostri confini, accosta le ricche Metauros e Lokroi Epizephyrioi alle attuali Gioia Tauro e Locri, spogliate dalla ‘ndrangheta.

La storia calabrese scompare nell’oblio fulmineo di un’Italia distratta e disperata. Anche se di questa storia, antica e quotidiana, vi sono tracce indelebili: il pensiero, la lingua, i riti, i costumi, le pietre, gli scritti e poi le scorie ritrovate a Crotone o lungo il fiume Oliva ad Amantea (Cosenza), causa di tragedie e fortune.
La storia calabrese poggia su un’atavica doppiezza, sulla coesistenza di bellezza e orrore, accoglienza e partenze obbligate, miseria diffusa e opulenza di pochi, spesso colletti bianchi. La storia calabrese rimane nei sussulti e nella rabbia degli onesti, che patiscono senza riferimenti, solidarietà, aiuto concreto e pulito. Rimane, la storia, in chi ha scelto di risiedere in Calabria senza compromettersi; in chi, emigrato, ha lasciato qualcosa d’indescrivibile a casa sua: più del cuore, dei ricordi, delle abitudini.
A Gioia, una volta Metauros, puoi saltare in aria se fai benzina all’automatico; anche se non c’entri, se non sai, se non hai visto nulla e non hai disturbato un capo. A Locri, centro della Magna Grecia, è deserto dopo l’assassinio di Francesco Fortugno e il conseguente teatro dello Stato; dopo la viva reazione dei ragazzi calabresi dissolta da tv e partiti. Il sangue di quell’omicidio scorre ancora nei palazzi che contano, nelle stanze del potere che si camuffa dietro a parvenze e linguaggio istituzionali, per negoziare favori e privilegi; per sopravvivere a se stesso.

A Pagliarelle, sperduta frazione dell’entroterra crotonese, abita Marisa Garofalo, sorella di Lea, uccisa barbaramente e con imperdonabile vigliaccheria. Lea riferì alla giustizia fatti che dovevano rimanere sepolti, come i morti della nostra terra spariti nel nulla, sciolti nell’acido o murati in qualche pilastro pagato da tutti gli italiani, di Monza, Perugia o Cefalù. La grande stampa s’è accorta di Lea giusto il tempo della cronaca, fino al processo degli assassini. Poi, come sempre, tutto è passato, nella meccanica corsa verso il nulla del Belpaese, che ha festeggiato i 150 anni dell’Unità scordandosi dell’eterna Questione meridionale.
Oggi il dramma del Sud, in particolare della Calabria, si riassume in quattro parole: disoccupazione, assistenza, degrado, nuova emigrazione. Li ha prodotti il circuito della paura e del terrore, della subordinazione di un intero popolo, sovente rappresentato da portatori d’interessi privati, incapaci di progetto e coerenza, deboli nello spirito e nella ragione. Marisa Garofalo vive nel suo dolore inconsolabile. La sua storia è il simbolo di un’Italia che non funziona: che prima predica giustizia e senso dello Stato, poi scarica, s’arrende – come fece per la strage di via d’Amelio – al corso delle cose, al menefreghismo individuale, all’”ordine” sopra l’ordinamento.

Spesso in Calabria si è già morti anche in vita: costretti a non parlare, a guardarsi, a evitare la denuncia o il biasimo del mafioso che delinque, del furbo che costruisce con abuso, del politico che promette posti e soluzioni col ricatto.
Siamo nel 2012, l’Università della Calabria risale al ’72. Abbiamo perso troppo tempo, al di là dei movimenti della politica, tra lamentele personali e chiacchiere da bar; tra autoassoluzioni e campagne elettorali che, proiettando cambiamenti rinviati all’infinito, ricordano il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, di Giacomo Leopardi, o Aspettando Godot, di Samuel Beckett. Ma la letteratura è altro dalla pratica, dal bisogno di azioni reali che la scrittura può indurre, anche con forza imprevedibile: scuotendo, contagiando, sostenendo le coscienze e le menti.

La recente omelia di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini a Polsi (San Luca, Reggio Calabria) ha destato numerosi commenti su Il Quotidiano della Calabria. Sul giornale continuano le riflessioni circa il perdono della Chiesa ai mafiosi, suscitate dal vescovo di Locri con la sua discussa predica; di fatto un’apertura alla remissione dello ‘ndranghetista. I nostri intellettuali guardano al ruolo della Chiesa per l’emancipazione della Calabria dalla cultura di reticenza e familismo imposta dalla ‘ndrangheta. Io penso che, richiamando il ruolo morale e sociale della Chiesa, si deve sottolineare l’esigenza che vescovi, sacerdoti e credenti siano vicini a chi parla, denuncia, testimonia. La Chiesa deve promuovere la comunione nella lotta alla ‘ndrangheta, quest’ultima intesa come forma di pensare e agire.
La sfida per il futuro della Calabria si gioca, dunque, su due fronti: 1) su quello della partecipazione attiva, religiosa e laica, all’impegno per la ripresa della Calabria da parte di noi calabresi; 2) sulla capacità di autocritica di ciascuno, che significa giudicarci per i comportamenti e le azioni, riconoscendoci colpe che addossiamo sbrigativamente solo al sistema. In questo senso, per esempio, non può passare sotto traccia che, per quanto largamente intrisi di cultura cristiana, tendiamo a stare dalla parte del più forte, dimenticando l’insegnamento delle Beatitudini.

Il Quotidiano della Calabria ha avviato un confronto aperto e fecondo, che non si esaurisce nel dibattito sul perdono dei criminali. A mio avviso, nei tanti contributi c’è un desiderio profondo di trasformazione: sta accadendo qualcosa di straordinario. Forse, senza volerlo, si sta stendendo un programma politico che toccherà ai prossimi candidati raccogliere e tradurre. Stanno uscendo energie, concetti, parole e perfino frustrazioni. Ci stiamo raccontando come calabresi, stiamo vincendo la paura del silenzio e la marginalità: stiamo facendo e scrivendo storia. «Ma la storia siamo noi», come sottolineava Francesco De Gregori, sicché «nessuno si senta escluso».
Proprio la convinzione di partecipare, sul giornale e fuori delle sue pagine, può determinare una grande consapevolezza del passato, del presente e del futuro. Può scatenarsi, allora, un desiderio incontenibile di libertà, la quale viene sempre dal lavoro. Bisogna, però, che prima focalizziamo un punto: il lavoro non è una concessione del potente di turno, ma il fondamento della Repubblica. Ed è nella nostra terra che abbiamo il diritto di lavorare. Soltanto lottando per questo ideale, possiamo arginare l’emigrazione e trasformare in autonomia la vecchia, inutile dipendenza dal potere.

Emiliano Morrone