Lecce, summit di mafia
nel centro del cappellano
Sacra Corona, le rivelazioni di un pentito: “Così suggellavano le alleanze e progettavano i traffici illeciti”
di CHIARA SPAGNOLO
LECCE – Summit di mafia durante i giorni di permessi premio ai detenuti. Non solo nelle abitazioni salentine degli affiliati alla Scu ma anche nella casa famiglia di Taranto gestita dal cappellano del carcere, dove i “fratelli di sangue” avrebbero suggellato alleanze e pianificato le strategie per gestire al meglio il mercato della droga e il racket delle estorsioni.
Lo rivela Alessandro Verardi, trentaquattrenne di Lizzanello arrestato nel settembre dello scorso anno e ritenuto uno dei capi della nuova criminalità leccese, che nei mesi scorsi ha scelto di collaborare con la giustizia, fornendo agli inquirenti le indicazioni per ricostruire le attività del suo e di altri gruppi. Sette gli interrogatori effettuati dal procuratore aggiunto di Lecce Antonio De Donno e dai carabinieri del Ros, i cui contenuti sono riportati nelle 225 pagine depositate giovedì dalla Dda all’ufficio gip del Tribunale di Lecce, presso il quale il 14 settembre si terrà l’udienza preliminare a carico di 49 presunti esponenti della Sacra corona finiti in manette nell’ambito dell’operazione Augusta.
I racconti del nuovo pentito sono lunghi e circostanziati e svelano come l’ondata di arresti degli anni ’90 non abbia fermato la criminalità salentina, che dalle carceri continuava ad imporsi, individuando anche le strategie procedurali per beffare la legge. Pur se detenuti in penitenziari diversi, in pratica, molti affiliati riuscivano ad incontrarsi, come racconta Verardi, ricordando i tre permessi premio di cui ha goduto dal 2008 al 2010, trascorsi
agli arresti domiciliari “nella casa famiglia di Taranto, gestita dal cappellano del carcere, dove venne a trovarmi Luigi Santoro in compagnia di altre persone”. Con loro, spiega il collaboratore, si parlò del traffico di droga, “mi informarono che vendevano mezzo chilo di cocaina alla settimana”.
Durante un altro incontro nella stessa casa famiglia, più sicura dell’abitazione perché meno controllata dalle forze dell’ordine, Verardi, che aveva da poco ricevuto dal boss Totò Rizzo il placet per formare un nuovo locale, pianificò insieme ai suoi compari l’evasione dal carcere e l’avvio di una latitanza che gli consentisse di presidiare il territorio. A partire dal 2010, poi, i permessi furono ancora più premiali, perché consentirono al detenuto di trascorrere i giorni nella sua casa di Merine. In quelle circostanze Verardi riuscì ad incontrare i suoi accoliti e anche altri detenuti, come Andrea Lezzi e Francesco Pastore, che erano riusciti ad ottenere il permesso nella stessa data per tornare in Salento e partecipare ai summit.
(08 settembre 2012)