Ieri sera ho conosciuto una donna di Luigi Manglaviti

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Ieri sera ho conosciuto una donna

Ieri sera ho conosciuto una bellissima giovane donna. Bellissima e tristissima: …mai vista tanta tristezza in due soli occhi.

È stata sotto i riflettori della cronaca per molto tempo. Le hanno ucciso un fratello. In lei si percepisce una stanchezza colossale e distruttiva. È in una fase di scelte delicate. La sua è una di quelle famiglie che hanno scelto di rimanere in Calabria malgrado tutto. Per un padre cui hanno tolto un figlio, può anche essere comprensibile: combatte giornalmente, ha aperto una fondazione, fa politica, è un esempio per la Locride e non solo. Ma per una sorella? In cosa consiste per questa bellissima e tristissima donna ancora giovane il sacrificio di “restare al proprio posto”, “tener fede alle proprie radici”, quando ogni giorno gli scherani ancora in giro per il suo stesso quartiere, per le sue stesse strade, ne sfidano lo sguardo con ottusa tracotanza?
(«Li incontro quotidianamente» mi confida, «mi fissano con aria di sfida: ma io sono l’ultima ad abbassare gli occhi». Lo dice senza un filo di livore né di orgoglio, solo sorpresa. Sì, la stupidità e il vuoto sono sorprendenti.)
È in una fase di scelte delicate, questa stanchissima bellezza magnogreca. Si percepisce che è una persona ricca, intelligente, forse pure con del talento — non lo so, sono sensazioni a pelle —. I suoi passi hanno la delicatezza delle farfalle in primavera.
Un mucchio di amici la circonda. Possono essere utili, gli amici, quando il tuo quesito esistenziale è la validità o meno dell’affermazione «Io ho scelto di restare». Ma io, che sono uno di quelli che lo stesso slogan lo predica dal 1988, anno in cui effettuai quella stessa scelta, ieri sera, pur senza avere alcuna confidenza con una persona appena conosciuta, d’istinto le ho sussurrato a quattr’occhi, mentre fumavamo insieme una Lucky Strike in disparte — il fumo uccide, okay, ma chi ha il vizio lo sa già —, di pensare prima di tutto a se stessa, e poi “alla sua terra”. Ai simboli. Agli insegnamenti per gli altri.
«Pensa prima a te, adesso: hai dato già tanto. Troppo».
Certo, andarsene e costruire altrove, per quello che han passato lei e la sua famiglia, sarebbe interpretato come una resa: non tanto di fronte alla Ndrangheta assassina quanto di fronte, più in generale, al sopruso e alla sopraffazione dei prepotenti. È una vecchia storia, una diatriba che durerà finché non finiranno i giorni. D’altro canto mi chiedo a cosa possa servire, a una creatura così gentile, “restare a sfidare ogni giorno quegli sguardi tracotanti”, perché «è solo così che li batteremo». Scegliere di restare a vivere il resto della sua vita come simbolo.
È una guerra. Lo sappiamo. La combattiamo da tempo, e siamo sempre di più. Però io ho visto la quantità di tristezza in quegli occhi. Un peso veramente insostenibile: mi sentivo accartocciare l’anima solo a sfiorarne il raggio d’azione, era come se le mie pupille si inchinassero di fronte al passaggio di una regina. E allora mi sono sentito di dire a quella splendida e gentile creatura di non porsi più il problema e di andarsene. Di martiri già immolati e di soldati ancora in campo siamo pieni. E comunque c’è ancora la sua famiglia, qui. Gli occhi — e le parole — di suo padre fanno già tanto.
Qualcuno mi darà addosso, per un consiglio del genere: “politicamente scorretto”, in una prospettiva calabrese. Demotivante. Però il punto qui non è la guerra, il senso della Resistenza che siamo diventati tutti qui in Calabria — noi siamo i veri prodromi dei Partigiani che liberarono l’Italia 70 anni fa, con la Ndrangheta nel ruolo del Nazifascismo, e del resto siamo stati noi figli di re Italo a dare il nome Italia a questo Paese —, no: il punto qui è la quantità di sacrificio e stanchezza che un’anima può sopportare.
Questa bellissima e giovane donna ha già dato a sufficienza: se concedessimo una… licenza-premio, a questo gentile soldato, non se ne avrebbe a male nessuno. E anche la sua famiglia, sia pure a fatica, arriverebbe a comprendere.
Datemi addosso.
Ma io vorrei che questa figlia della primavera scegliesse di andare a rifarsi un nido altrove, a godersi un po’ di pace. Ad allentare il dolore. Se lo merita. Fino a oggi ha combattuto bene, solo che ora è veramente troppo stanca.