“Così i migranti hanno salvato il borgo destinato a scomparire”

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Nella Locride l’integrazione ha rilanciato l’economia locale, tra borghi ristrutturati, nuovi nati e la moneta complementare con Marx, Che Guevara e le vittime di mafia

moneta gioiosa luca che

nadia ferrigo
inviata a gioiosa jonica

L’ultima nata a Camini, poco più di duecento anime abbarbicate nella Locride a mezz’ora di curve, erba bruciata e fichi d’india dalla statale, si chiama Giusy. Nomignolo assai comune al Sud, molto meno in Nigeria. Mamma e papà sono tra i centoventi migranti che in Calabria hanno trovato una nuova vita, il nome invece è un ringraziamento a Rosario Zurzolo e Giusy Carnà, marito e moglie a capo del progetto di accoglienza diffusa capace di ripopolare un borgo altrimenti destinato a scomparire.

Sulla scia dell’esperienza di Riace, i comuni della Locride hanno aperto le porte al mondo: da queste parti i migranti non sono una minaccia, ma una risorsa. Gioiosa Jonica, Stignano, Benestare, Africo sono solo alcuni dei dodici comuni – altri otto sono in attesa di una risposta – che partecipano allo Sprar, il Sistema di protezione asilo e rifugiati gestito dal ministero dell’Interno. Lo Stato paga vitto e alloggio, oltre a finanziare corsi di italiano e borse lavoro, un apprendistato retribuito che dà una mano anche alle piccole imprese a corto di liquidi. In una delle terre più povere e spopolate d’Italia lo spazio per ospitare le famiglie arrivate dal mare non manca, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali ed educatori nemmeno. Così ci guadagnano tutti: i migranti e la cittadinanza.  

La paghetta giornaliera che viene data ai rifugiati e che torna ai commercianti della zona sotto forma di banconote colorate può fare la differenza. La moneta complementare ideata dalla Rete dei comuni solidali si può spendere solo in paese, viene poi convertita in euro dai negozianti: porta i volti di Che Guevara e Antonio Gramsci, ma anche di Peppino Impastato e Gianluca Congiusta, giovane negoziante assassinato dalla ’ndragheta nel 2005 perché si rifiutò di pagare il pizzo. Per la Locride la rete di accoglienza ha un valore in più: è un pezzo di Stato che funziona, e bene. «Il minimarket stava per chiudere, le elementari avevano solo una pluriclasse – racconta Rosario, in perenne movimento tra le stradine di Camini -. Gli ultimi arrivati sono quaranta bambini siriani, dobbiamo occuparci di cure sanitarie, psicologiche e della scuola. Noi li aiutiamo, ma senza di loro il nostro paese non ci sarebbe più».  

Nei progetti di Rosario ci sono anche un ristorante internazionale, un’enoteca e una rete di turismo solidale. Il tutto gestito dalla cooperativa e dai suoi ospiti, che intanto imparano un mestiere come Muhamad Hiwa, ex soldato iracheno che da due anni vive in paese con moglie e tre figli, un quarto in arrivo. Lui fa il muratore, c’è chi si cimenta con le conserve, altri con la falegnameria. A raccontare la loro storia sono arrivate anche le telecamere di National Geographic e quelle del governo austriaco: la Locride come eccellenza da esportare in Europa. Il razzismo non appartiene a queste terre, dove quasi tutti sono stati a loro volta migranti. «A giugno di sedici anni fa sbarcarono sulla nostra spiaggia in 180. Senza stare a chiedere nulla, la città intera portò cibo, vestiti, medicine», racconta Francesco Candia, quarto mandato da sindaco di Stignano, 1300 abitanti e 40 rifugiati, di cui sette minori.

Il lavoro che non c’è  

Il lavoro è la preoccupazione che unisce e divide. Se c’è chi segue il modello Riace, altri preferiscono tenere i numeri bassi. «La prima cosa è imparare l’italiano, poi vogliamo essere sicuri che quando se ne andranno avranno di che mantenersi – spiega il sindaco -. Di posti qui ce ne sono pochi, per tutti. È bellissimo aiutare chi ne ha bisogno, ma noi preferiamo un modello di accoglienza artigianale».

Qualcuno che borbotta c’è. Soprattutto se si parla dei cosiddetti migranti economici, che scappano dalla fame in cerca di fortuna. A Gioiosa Jonica i ragazzi sono 75, tutti “singoli”. «All’inizio le mamme non mandavano i bimbi a giocare in piazza perché c’erano anche i “neri” – racconta Sonia Bruzzese, assistente sociale a Gioiosa-. Il tempo, la conoscenza reciproca e il ritorno economico hanno contribuito a sciogliere la tensione». Qualcuno ha trovato un impiego in regola, gran parte va a lavorare in nero nei campi. Ogni giorno c’è qualcuno pronto a sistemare una piazzetta abbandonata, ripulire una strada. Senza chiedere nulla in cambio: piccoli gesti, capaci di dimostrare che la ricetta dell’integrazione funziona, anche dove proprio non te lo aspetti.

Fonte: la Stampa