Perchè dire “NO”- su narcomafie l’editoriale di Livio Pepino

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Immagine referendum

Siamo in piena stagione di referendum istituzionali: oggi con la raccolta delle firme per l’abrogazione di alcuni punti fondamentali della modifica costituzionale e della nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum); nel prossimo autunno e, poi, in primavera con il conseguente voto. Ci sono stati, nella nostra storia, referendum che hanno cambiato il volto del Paese o inciso nel profondo sulla sua vicenda politica: quelli sul divorzio (1974), sull’interruzione della gravidanza (1981), sulla riduzione delle preferenze per la Camera dei deputati (1991), sulla modifica della seconda parte della Costituzione (2006), sull’acqua pubblica (2011) e sulla produzione di energia nucleare (2011).
Oggi si apre una nuova decisiva stagione che, in qualche misura, si ricollega a quei precedenti.
Le modifiche costituzionali di cui si discute, integrate dall’Italicum, non sono, infatti, una semplice operazione tecnica per incidere sulla funzionalità delle istituzioni, ma il cuore di un progetto politico di trasformazione della democrazia, del sistema dei diritti e delle regole
della convivenza. Con tale progetto si persegue il cambiamento non solo della forma di Governo ma della qualità del sistema, trasformato da democrazia parlamentare in democrazia di investitura o plebiscitaria.
Ciò grazie ad alcuni elementi:
a) un sistema elettorale per la Camera dei deputati, in forza del quale chi vince (indipendentemente dal raggiungimento della maggioranza) prende tutto;
b) la concentrazione del potere legislativo e dei poteri di indirizzo politico nella sola Camera dei deputati e la trasformazione del Senato (che non viene affatto abolito) in un canonicato per consiglieri regionali e sindaci;
c) la previsione della centralità del Governo rispetto al Parlamento;
d) la contrazione delle forme di partecipazione diretta dei cittadini (oltre che dei poteri delle Regioni rispetto a quelli dello Stato). In particolare, secondo il nuovo sistema elettorale per la Camera, il partito che ottiene almeno il 40 per cento dei voti al primo turno o che vince al ballottaggio tra le due liste che hanno ottenuto il maggior numero di consensi (anche se pari al 20 o al 25 per cento) consegue 340 deputati su 630, pari al 54 per cento dei seggi e alla magioranza assoluta dell’assemblea.
Ciò non ha nulla a che vedere con il metodo elettorale maggioritario (in vigore, con diverse soluzioni, in molti paesi) ma costituisce un unicum nel panorama mondiale, che ha l’effetto di trasformare artificialmente
una minoranza in maggioranza, determinando una curvatura del sistema democratico da “governo dei più” in “governo dei meno”.
Si aggiunga che ciò non è giustificato – nonostante l’ossessiva ripetizione – da alcuna esigenza di governabilità, come dimostra il fatto che la democrazia dotata di maggior stabilità in Europa è quella della Germania, dove vige un sistema rigorosamente proporzionale e senza premi di maggioranza… L’indubbia crisi (anche istituzionale) in cui versa il nostro Paese è una crisi politica, che si risolve solo con un cambiamento profondo del modo di governare e del rapporto tra rappresentati e rappresentati e non con scorciatoie di ingegneria istituzionale che perseguono, in realtà, l’obiettivo – inquietante e pericoloso – dell’uomo solo al comando.
A conferma di ciò sta il fatto che questa impropria investitura del premier è accompagnata dallo strapotere del Governo e della maggioranza: il primo messo in condizione di egemonizzare anche il procedimento legislativo (grazie a una corsia privilegiata per i propri disegni di leggi); la seconda arbitra finanche della dichiarazione dello stato di guerra (rimessa in via esclusiva alla competenza della Camera). Il tutto in un quadro di indebolimento dei controlli e di una riduzione delle competenze decentrate in favore del Governo centrale. Sembra realizzarsi così il diktat sovranazionale caratteristico di questa stagione politica espresso, tra l’altro, in un documento della banca americana J.P. Morgan del
giugno 2013 in cui si legge: «Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli ri-spetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori, […] diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo.
Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche».
Secondo slogan diffusi a piene mani nella società degli spot e
dei tweet, «dire no» a queste “riforme” è una manifestazione di conservatorismo un po’ ottuso di chi ha paura del cambiamento. La storia dell’umanità mostra esattamente il contrario. I mutamenti politici e sociali più importanti hanno avuto alla loro base la resistenza di chi ha saputo dire no all’autoritarismo, alle prevaricazioni, all’ingiustizia.
Non a caso la modernità nasce con Antigone che, nella tragedia di Sofocle, dice di no all’editto di Creonte, re di Tebe, e dà sepoltura al proprio fratello, diventando per questo, nei secoli, simbolo di libertà e di lotta contro il sopruso. Una ragione in più per «dire No»!