Diario della Memoria- A Siderno il 24 maggio 2005 hanno spento il sorriso di Gianluca Congiusta

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Il padre Mario e la sorella Roberta raccontano il loro ragazzo

Copia di GIAN

“Era Lui il punto di riferimento della nostra famiglia”

di Luciana De Luca

«Abbiamo chiesto ai medici se aveva sofferto. E loro ci hanno risposto di no. È morto sul colpo». Mario Congiusta, padre di Gianluca, il giovane ucciso a Siderno, il 24 maggio del 2005, nel racconto della tragica perdita del figlio, cerca di trovare qualche elemento che alleggerisca la sua pena. Piccoli particolari che diventano essenziali quando bisogna fare i conti con il dolore ingiusto,  incomprensibile e incontenibile.

Perché c’è da impazzire se si pensa a quel figlio di appena 32 anni, punto di riferimento di tutta la famiglia, che muore ucciso da un killer mentre rientra a casa dal lavoro.

Questo tragico evento ha ribaltato le vite di tutti. Li ha costretti a prendere consapevolezza di un prima e di un dopo Gianluca. Li ha portati nelle strade a protestare e nelle aule dei tribunali a chiedere giustizia per quel sorriso che ormai possono solo immaginare.

Prima c’era la famiglia Congiusta: papà Mario, mamma Donatella,  i figli Gianluca, Roberta e Alessandra. Commercianti da tre generazioni, con quel ragazzo intraprendente che spronava tutti a diversificare, ad accogliere nuove sfide imprenditoriali. Capace di creare relazioni, di entrare in contatto con realtà diverse e convincere tutti dell’operato buono del suo lavoro. Gianluca aveva puntato sul settore della telefonia quando ancora in pochi ci credevano. E in breve tempo la sua attività era cresciuta al punto tale da indurlo ad aprire più sedi e a coinvolgere gli altri componenti della famiglia, nella loro gestione.

Dopo c’è un ragazzo morto sul suo Maggiolino giallo, con la radio ancora accesa e l’incasso del giorno sul sedile.

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«Quel 24 maggio io ero a casa, stavo guardando un documentario alla televisione – racconta Mario Congiusta -, quando arriva la Polizia per informarmi che Gianluca aveva avuto un incidente. Mi sono subito recato sul posto facendomi accompagnare da un amico medico. Ma quando siamo arrivati ci siamo subito resi conto che era successo qualcosa di più grave rispetto a un incidente».

Il suo ragazzo era stato ucciso con un colpo di lupara. E dopo i rilievi della Scientifica è stato trasferito in ospedale per l’autopsia.

«Ci siamo ritrovati tutti sul luogo dove è avvenuto l’agguato -continua Mario -, eravamo increduli e disperati. Poi in Polizia, forse per tranquillizzarci, ci hanno detto che sicuramente dietro la morte di mio figlio c’era una questione di donne. Quando siamo tornati a casa, abbiamo passato tutta la notte a ragionare, a cercare di dare un senso alle parole degli investigatori e ci siamo chiesti come facevano, dopo solo due ore dall’omicidio, ad affermare che dietro la morte di mio figlio ci fosse una motivazione di natura passionale. In realtà ci avevano dato in pasto una storia come un’altra per rispondere in qualche modo e nell’immediato, ai nostri pressanti interrogativi. Nei giorni che seguirono si mise in moto perfino la macchina del fango e di Gianluca si parlò anche come spacciatore di droga».

Mamma Donatella quella sera era a cena con la fidanzata del figlio. Roberta era a casa di amici. Qualcuno le avvisò e si recarono anche loro in via Torrente Arena, sul luogo dell’omicidio. La famiglia Congiusta viene repentinamente proiettata nel dopo. Ognuno a modo suo vive il dolore immenso che accompagna quell’improvviso distacco. E tutti sono alla ricerca della verità. Seguono il lavoro degli investigatori, fanno da pungolo cercando loro stessi di ricostruire gli spostamenti nelle ultime ore di vita di Gianluca. Chiedono di sapere perché sono stati privati di un affetto così grande. Vogliono conoscere le ragioni che hanno armato la mano del killer e reso loro creature mutilate.

Gianluca entra a pieno titolo nell’universo dei morti ammazzati senza colpevoli. Ma Mario decide di lottare per la verità, per la giustizia. Il primo passo che compie è l’apertura di un blog intitolato al figlio dove si possa parlare della sua storia e non solo, coinvolgendo la rete e diventando comunità con tutti coloro che soffrono la sua condizione.

Sciopero della fame per avere giustizia

Seguono conferenze stampa, la “Marcia del silenzio” un anno dopo, per ricordare quel ragazzo morto e dimenticato. E nell’ottobre del 2006 papà Congiusta decide di passare alle vie di fatto, di rompere quella cortina di silenzio che avvolge la morte di suo figlio, e inizia lo sciopero della fame. Lo fa davanti a Piazza Tribunale a Locri, con il camper dei “Diritti negati” che accoglie passanti, rappresentanti istituzionali e familiari di altre vittime. Le esperienze si fondono, la protesta di un singolo diventa lotta comune e condivisa.

Mario parcheggia anche il Maggiolino giallo di Gianluca davanti al Palazzo di giustizia. L’auto diventa una bacheca dove poter contare i giorni in cui il grido di dolore di un padre rimane inascoltato.

Davanti alla morte violenta e inspiegabile di un figlio, si può rimanere paralizzati, fermi all’attimo prima che tutto accada, incapaci di elaborare quel lutto ingiusto.

Congiusta non è mai riuscito a versare una lacrima dopo la morte del suo ragazzo, ma ha imparato a lottare per la sua verità. Lui suo figlio lo ha stretto a sé, lo ha difeso, lo ha protetto, lo ha pianto ogni giorno a suo modo, lo ha ritrovato stando seduto al computer mentre elaborava articoli sulle vittime di mafia, lo ha preso per mano e accompagnato nelle aule di tribunale, nelle manifestazioni dove Gianluca poteva esistere ancora. Il suo è un dolore sordo, lacerante, silenzioso. Anche quando racconta questo capitolo tragico della sua esistenza, mostra il lato duro di una sofferenza che si intuisce tutta ma che non offre mai.

A pochi passi da lui però, c’è chi piange ancora e non riesce a trovare consolazione per la perdita di una “persona speciale”. È una giovane e intensa donna bruna che non è stata capace di diventare giunco quando il vento della morte l’ha attraversata. Lei si è spezzata.

«Sin da piccolo mio fratello aveva una particolare luce negli occhi – racconta Roberta Congiusta -. Per tutti quanti noi era la persona che teneva il timone di casa. Nonostante ci fosse papà è sempre stato lui il leader. Per me sin da piccola ha rappresentato un punto di riferimento importante: era il mio fidanzato, l’amico, il fratello. Se mi succedeva qualcosa era lui che chiamavo istintivamente.  Era molto intraprendente Gianluca. Sarà per la brutte esperienze che ha vissuto. A quindici anni ha dovuto fare i conti con la Leucemia. Io penso che la vita ci mandi dei segnali. Lui sin da piccolo ha rischiato di morire più volte: in un incidente in moto e mi raccontano i miei, che anche appena nato ha avuto dei problemi di salute molto seri. Addirittura un anno a Capodanno fu colpito da alcuni botti lanciati da un suo amico. Dopo la sua tragica fine ho ripensato tanto a questi episodi e li ho interpretati  quasi come dei segni premonitori. Gianluca era una forza della natura. Ritornato dall’università, si è rimboccato le maniche e ha aperto un negozio in cui c’era un unico telefono a disco e da lì ha creato la sua impresa nella quale all’epoca nessuno credeva. Nel lavoro come nello sport doveva provare tutto. Non si dava mai per vinto. Questo atteggiamento è emerso in maniera prepotente soprattutto dopo l’esperienza della sua malattia».

Roberta ricorda ancora con grande sofferenza il periodo in cui Gianluca ha dovuto fare i conti con la Leucemia.

«Mamma e papà si trasferirono a Bologna con lui – continua -, perché i medici gli avevano dato pochi mesi di vita. Vi rimasero per un anno e mezzo. Io andavo a trovarlo durante le feste e potevo stare con lui solo per pochi minuti. Quando lo vidi per la prima volta senza capelli, completamente trasformato, rimasi scioccata. Ma lui era forte. In quel periodo in ospedale, a parte i momenti in cui la chemio lo indeboliva, riuscì comunque a studiare, a divorare i suoi libri. I suoi amici più intimi, per il suo compleanno, facendo una colletta anche tra noi parenti, gli regalarono uno scooter. Lo portarono sotto l’ospedale e lui che non poteva uscire, si affacciò dalla finestra per poterlo vedere. Ma su quel motorino riuscì a salirci sopra dopo tanto tempo. A mio fratello volevano bene tutti. E nessuno era geloso del sentimento speciale che anche in famiglia si nutriva nei suoi confronti. Era il preferito ma essendolo per tutti, questa condizione eliminava i conflitti alla radice».

Roberta attribuisce alla mancanza di Gianluca, il suo risveglio, la consapevolezza di sé e di ciò che l’ha circondata per tanti anni, quasi un dono, l’ultimo, il più significativo da parte di suo fratello. «Lui risolveva i problemi di tutti e così facendo ci impediva naturalmente di vedere gli altri per quello che erano realmente – spiega -. Quando lui non c’è più stato sono emerse le miserie, le debolezze di tanti, e con queste abbiamo dovuto fare i conti».

Dopo la frantumazione interna, per Roberta arriva il momento in cui bisognava dimostrare di essere capace di elaborare quel dolore e rinascere dalle sue stesse ceneri.

«Dopo il primo anno in cui ho vegetato – continua-, vivendo praticamente in commissariato e cercando di capire, di dare una mano nelle indagini, mi sono aiutata attraverso quello che faceva Gianluca. Ho iniziato a praticare tanto sport, a correre, fare nuoto. E questo mi ha risollevata perché era l’unico modo che mi consentiva di sentire ancora vicino mio fratello. Ricordo che in molti si sono allontanati da noi. Ci sono rimasti accanto solo gli amici veri, quelli che ci hanno aiutato anche quando oltre al dolore bisognava fare i conti con la burocrazia. Perché io il giorno dopo la scomparsa di Luca, ho dovuto fare il giro delle banche e sistemare tutto quello che riguardava la sua attività. Ero un automa, non capivo niente, ma avendo condiviso con lui il lavoro, dovevo assolvere anche a quei compiti».

È con cautela che ci addentriamo con Roberta nella sfera dei ricordi più dolorosi. Stando attenti a non pronunciare mai parole che possano apparire inadeguate e impedire naturalmente  la condivisione del suo stato emotivo. Perché Gianluca c’è ancora, la sua è una presenza forte e ha un ruolo di primo piano nella vita di questa giovane donna.

«La sera del 24 maggio 2005 è stata ovviamente la più brutta della mia esistenza e ha rappresentato un vero e proprio spartiacque – racconta -. Perché vieni investito dalla precarietà della vita e ti rendi conto che le persone, anche quelle che consideri più forti, possono improvvisamente lasciarti. Io da allora vivo costantemente con la paura di perdere ciò che ho. Per un periodo di tempo io e mia sorella Alessandra, ogni volta che sentivamo un’ambulanza, prendevamo il telefono in mano e chiamavamo tutti. Poi col tempo abbiamo iniziato a sdrammatizzare. E alla chiamata rispondevamo direttamente “non sono io”. Quella maledetta sera ero a casa di amici. E ricordo che andai via dal negozio anche un po’ arrabbiata con Luca perché ogni volta che avevo un impegno, accadeva sempre qualcosa che mi faceva fare tardi. Io gestivo il negozio di Gioiosa e se a Siderno si bloccavano i computer per fare le ricariche, mi mandavano tutti i fax con le richieste da evadere. Quella sera chiusi in tutta fretta e per recarmi nel luogo dell’appuntamento, passai proprio da una strada che incrociava la via dove è stato ucciso Gianluca. Questo fatto negli anni mi ha lacerato l’anima perché penso che mentre io me ne andavo a cena tranquilla, mio fratello era lì, da solo nella macchina, al buio. Senza vita. Nessuno lo aveva ancora trovato. Poi verso le 10 e 30 è arrivata una telefonata nella quale si parlava di un incidente in cui era rimasto coinvolto. Quando sono arrivata sul posto ho visto la macchina di mio fratello in lontananza con le transenne tutte intorno. L’ambulanza era con la sirena spenta ed è stata questa la cosa più brutta. Perché significava che non c’era più niente da fare. Ho visto mio padre che mi veniva incontro. Mi ha abbracciata e sono svenuta. Non mi hanno mai fatto vedere mio fratello. Io non ho potuto neanche salutarlo. Nemmeno i miei genitori. Sono stati trattenuti dai poliziotti perché probabilmente Luca aveva il volto sfigurato».

Da quel momento per Roberta inizia un’altra storia: la confusione, i sedativi per non sentire quel dolore profondo, devastante. L’impotenza davanti a un evento che non si è capaci di affrontare: “Come aprivo gli occhi e realizzavo quello che era successo, svenivo”.

«Mentre mi recavo sul luogo dell’incidente – continua -chiamavo Luca sul suo cellulare, speravo in cuor mio che mi rispondesse. E negli anni  seguenti, finché il suo numero è stato attivo, ho continuato a chiamarlo. Lo sapevo che non mi avrebbe risposto nessuno. Ma lo facevo così, solo per sentirmi ancora vicina a lui».

Roberta parla di giorni convulsi, con la casa piena di gente. E poi la scoperta più assurda: suo fratello, il suo Luca, non era morto in un incidente, era stato ammazzato.

«Ho capito tutto perché ho sentito parlare i poliziotti con mio padre -spiega-. Ed è iniziato un altro incubo. Perché noi non eravamo una famiglia legata alla ‘Ndrangheta. Loro sanno che queste cose possono accadere, loro questo rischio lo devono mettere in conto. Ma noi che c’entriamo con queste cose? Io ero convinta che avessero sbagliato persona, che volevano ammazzare qualcuno che abitava nella strada dove casualmente era passato Gianluca, non lui. Per me e mio padre è iniziato un momento difficile, abbiamo rischiato di impazzire perché volevamo capire a tutti i costi, ricostruire gli eventi. Io guardavo in mezzo alle sue carte, cercavo tra i suoi libri se mi avesse lasciato scritto qualcosa. Poi non capivo perché all’inizio indagavano anche su di noi. Anzi, lo capivo ma stavano perdendo solo tempo. Da quel momento la nostra vita è stata andare in giro per cercare qualche elemento che ci aiutasse a fare luce su quella tragica morte. Mio padre ha fatto il giro di tutti i negozianti per chiedere loro se lo avevano visto mai bisticciare con qualcuno e a che ora era uscito dal negozio l’ultima sera. Temendo anche qualche ritorsione contro di lui, mi diceva sempre che nel caso gli fosse capitato qualcosa dovevo guardare la sua agenda. Papà infatti, scriveva ogni giorno i posti dove andava, con gli orari e le persone che incontrava».

Un altro passaggio durissimo è stato comunicarlo alla piccola di casa, Alessandra, anche lei legatissima al fratello.

Roberta per un anno intero ha trascorso buona parte della sua giornata al cimitero, da Luca. Ora va “ogni volta che gli devo comunicare qualcosa di importante”.

Per un mese intero si è recata da Natuzza a Paravati. La mistica stava già male, non poteva ricevere nessuno. Ma qualcuno che vedeva sempre quella ragazza disperata alla ricerca di un conforto, un giorno la fece entrare nella sua stanza per pochi minuti. Roberta voleva sapere se il fratello prima di morire aveva sofferto e soprattutto di chi era la mano assassina che lo aveva strappato ai suoi cari. Natuzza le rispose che i suoi dubbi e le sue lacerazioni appartenevano al mondo dei vivi e non più a quello di cui ormai faceva parte suo fratello.

Dopo il blocco totale della sua esistenza, Roberta ha deciso di riprendere in mano la sua vita, di immaginare un futuro. Vuole giustizia. È fermamente convinta che la condanna definitiva degli assassini di suo fratello, riuscirà a restituirle un po’ di pace.

«Paradossalmente ho iniziato a vivere nel momento in cui Gianluca è andato via. Io sono sempre stata timida, riservata. Ma poi ho dovuto tirare fuori gli artigli perché questa volta toccava a me difendere lui, la sua memoria. E dopo i lunghi anni di rabbia è arrivata una rinascita ma con la consapevolezza che niente sarà più come prima. Noi tutti ora cerchiamo di andare avanti, di gioire delle cose belle, come l’arrivo della nostra nipotina, ma sentiamo sempre quella felicità incompleta, mancante di qualcosa. Sarebbe tutto completamente diverso se lui ci fosse ancora. Luca mi manca soprattutto nei momenti di gioia. Faccio fatica a vivere la bellezza della vita senza di lui. Mi sento quasi in colpa di vivere. Se avessi saputo che lui se ne sarebbe andato così presto, gli avrei detto almeno quanto lo amavo. Da quando non c’è, ovunque io vada, non mi sento più a casa, non mi sento protetta. Casa mia per me era Gianluca. Ora non sento più l’appartenenza con la mia terra, sono senza radici. Mi manca Luca che sdrammatizzava, che aveva una risposta per tutte le cose. Mi manca quel fratello che più cose gli capitavano e più premeva sull’acceleratore della vita. Mi manca il suo sorriso. E la sua spalla forte che mi accoglieva sempre».

Roberta, Mario e tutta la famiglia Congiusta, sono ancora troppo pieni di dolore e si tengono stretto il loro ragazzo. Forse solo quando la giustizia darà loro delle risposte vere, lo lasceranno andare via sereno sul suo Maggiolino giallo, con la radio accesa ad alto volume e il sorriso di sempre stampato sulla faccia.

Fonte: Il Quotidiano del Sud

Due condanne per il mandante-Ora dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale

Gianluca Congiusta, 32 anni, imprenditore, viene ucciso a Siderno, provincia di reggio Calabria, il 24 maggio del 2005.

Il ragazzo viene ucciso da un colpo di lupara mentre torna a casa dal lavoro.

Le indagini inizialmente si muovono in varie direzioni. ma solo nel gennaio 2007, quando nel corso di un’altra inchiesta spunta una lettera con delle richieste estorsive, vengono arrestate cinque persone, Tutte affiliate al clan Costa. dalle indagini emergono con chiarezza i collegamenti con la morte di Gianluca Congiusta.

Tommaso Costa, in particolare, viene considerato il mandante ed esecutore dell’omicidio del giovane di Siderno.

Alla base dell’assassinio cè il tentativo di estorsione da parte di Costa ai danni del futuro suocero del ragazzo, Antonio Scarfò, che ricevette una lettera con delle richieste ben dettagliate.

Il giovane imprenditore, sarebbe venuto a conoscenza della lettera, dalla madre della fidanzata. Probabilmente Gianluca, com’era nella sua natura, cercò di proteggere la famiglia della sua ragazza, dalle minacce e dalle pressioni che ricevevano dai Costa. Quello che lui fece in concreto, non è noto a nessuno, nè è stato ricostruito nel corso dei processi. ma è stato dimostrato che il fatto stesso che la lettera sia uscita allo scoperto, con la conseguenza di nocere ai Costa e mettere a rischio gli equilibri con gli altri clan presenti sul territorio, abbia armato la mano di Tommaso Costa che ritenne Gianluca Congiusta un serio e valido pericolo.

Nel Dicembre 2010 la Corte D’Assise di Locri ha condannato Tommaso Costa alla pena dell’ergastolo per l’omicidio dell’imprenditore di Siderno. la pena è stata confermata in Appello nell’aprile del 2013.

Un anno dopo la Cassazione si è pronunciata rimandando per la celebrazione di un nuovo processo, davanti alla Corte D’Appello di Reggio Calabria. Ma la stessa Corte nel febbraio 2016, ha sospeso il giudizio disponendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale come richiesto dalla stessa Procura. Bisognerà infatti colmare un vuoto legislativo attualmente esistente, sulla possibilità di utilizzare le lettere dei detenuti come elemento di prova, alla stregua delle intercettazioni telefoniche.