Omicidio Congiusta-Costa: Ho collaborato per evitare una faida

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Le contraddizioni del pentito in aula: ” Se questa scelta l’avesse fatta mio fratello Tommaso sarebbe scoppiata una guerra”. Troppi i “non ricordo” pronunciati ieri

di Angela Panzera

«Ho collaborato perché si era sparsa la voce che mio fratello Tommaso voleva pentirsi e molti in carcere mi guardavano male, ho avuto paura; ho deciso di pentirmi io per evitare che scoppiasse un faida».

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Ma perché la faida sarebbe dovuta scoppiare con la collaborazione di Tommaso Costa e non con quella di suo fratello Peppe? La domanda rivolta all’anziano boss sidernese da parte dell’avvocato di parte civile Giuseppe Femia è rimasta senza risposta. Così come molte di quelle poste dal pg Franco Scuderi, che rappresenta l’accusa nel secondo processo d’Appello in svolgimento dinnanzi alla Corte d’Assise di Reggio Calabria e che vede ancora una volta alla sbarra Tommaso Costa, già condannato definitivamente per tentata estorsione e associazione mafiosa, ma per il quale la Cassazione, nonostante l’ergastolo anche in secondo grado, ha annullato la sentenza del delitto di Gianluca Congiusta, il giovane imprenditore sidernese ucciso il 24 maggio 2005 e per cui è in corso nuovamente il dibattimento d’Appello. La testimonianza d Peppe Costa non è stata casuale: la Corte ha ritenuto di dover disporre la sua audizione poiché è stato tirato in ballo da un altro pentito, ossia Vincenzo Curato, che nell’udienza di lunedì scorso disse chiaramente senza mai esitare che Peppe Costa gli riferì di aver mentito durante un processo dinnanzi ad un’Assise sulle responsabilità di Tommaso poiché, pur sapendolo coinvolto, non poteva tradire il suo sangue. Ieri invece, come era prevedibile, Costa ha rispedito tutte le accuse al mittente. «È un tossicodipendente – ha detto – e a me queste cose non piacciono. Lui era risentito con me perché mi chiese se poteva venire in cella con me e io ho detto di no. Sarà andato su internet e si è inventato tutto oppure gliel’avrà dette il mio ex genero Armigere che pure lui era risentito con me». «Ma allora perché Curato sapeva che sua moglie aveva dei beni a Gioiosa?», ha tuonato in aula il Presidente della Corte, Lucisano. «Mi sono fatto spedire tutti i documenti e li custodivo in cella – ha risposto il pentito -, lui aveva la cella di fronte alla mia e li avrò visti». A meno che “Vicienz u Cassanisi” disponesse in carcere di un cannocchiale o di uno scanner a raggi x, questa versione ha lasciato alcune perplessità sui volti di tutti ieri in aula. Per tale motivo infatti, la Corte lo ha riconvocato per il 20 ottobre, predisponendo inoltre l’esame dell’attuale commissario di Siderno, Vicenzo Cimino, che appunto dovrà riferire in merito ai riscontri sul narrato di Curato. Ma le ombre che incombono sull’attendibilità di Peppe Costa, che potrebbero eventualmente mettere in discussione il relativo programma di protezione, non sorgono solo per la diatriba con Curato. Allo stato dei fatti non si sa chi abbia deposto falsamente. Quel che è certo è che uno dei due è un bugiardo. «Non ho mai nascosto nulla, quello che sapevo l’ho riferito. Ho detto nell’altro processo -ha aggiunto Costa – che tale Salvatore Zavettieri mi disse che a lui Antonio Commisso, classe 1956 alias l’avvocato, gli riferì che mio fratello non c’entrava con l’omicidio Congiusta». Una cosa però non quadra, e non è quadrata neanche allo stesso pg Scuderi. Questa circostanza Peppe Costa non la riferì durante il periodo dei 180 giorni, ossia durate la sua collaborazione con la Dda. «Perché non lo disse subito al pm?», ha tuonato in aula il pg. «Quando mi sono ricordato l’ho riferito», ha risposto Costa. Una giustificazione che non ha convinto per nulla Scuderi, che sul punto ha più volte insistito, scontrandosi però solo con i «non lo ricordavo» del collaboratore. Peppe Costa solo su un particolare è stato chiaro, ossia quando ha riferito che il fratello Tommaso aveva ucciso Vincenzo Figliomeni, alias il brigante, poiché lo riteneva il mandante dell’agguato in cui morì il loro fratello Luciano. «Ha incolpato Tommaso di altri delitti?», ha detto Scuderi. «Non ricordo», ha aggiunto la prima volta Costa, che incalzato dall’accusa ha poi ribadito: «Credo di si, anzi credo di no». Dichiarazioni e atteggiamento che adesso toccherà alla Corte valutare al pari dei «non so nulla» del nipote dei Costa, Francesco, chiamato a testimoniare perché Curato l’ha indicato come il trait d’union fra Giuseppe Costa e la famiglia d’origine. Rispondendo alle domande delle parti, il giovane Francesco ha riferito non solo di non aver saputo nulla dell’omicidio Congiusta, ma di non aver mai neanche letto qualcosa in proposito. Eppure all’ergastolo ci è finito per due volte lo zio. Ai giudici, comunque, Costa junior ha riferito che l’ultima volta che si è recato in visita dallo zio Giuseppe è stato il 23 dicembre del 2003. La Corte ha quindi predisposto una verifica con le varie case circondariali volte a chiarire non solo le visite in carcere, ma anche gli eventuali contatti fra zio e nipote.

fonte: il garantista